Un inedito di Pietro Maria Cavina nella Sezione di Archivio di Stato di Faenza
Ministero della Cultura - Direzione Generale Archivi - Archivio di Stato di Ravenna fabio.lelli@cultura.gov.it
Received 31/01/2024 | Accepted 12/05/2024 | Published online 10/06/2024
Abstract
Pietro Maria Cavina, notaio ed erudito faentino, cultore amatoriale di astronomia, scrive probabilmente nel 1680 un compendio manoscritto in volgare inserito in un volume delle Stampe dell’Archivio della Magistratura del Comune di Faenza. Dalla trascrizione del testo, dedicato alla ‘cosmografia’, vale a dire lo studio della sfera del mondo, emergono le idee più importanti difese dal dotto romagnolo su alcuni argomenti astronomici e matematici: la sfericità della terra, il sistema ticoniano, la collocazione delle stelle fisse, e un breve accenno sulla incomprensibilità della geometria degli indivisibili, già sviluppata da Cavalieri e Torricelli. Si formulano alcune ipotesi sulla anomala collocazione archivistica del manoscritto, e sul rifiuto della generazione della sfera tramite rotazione di un semicerchio.
English abstract
Pietro Maria Cavina, an erudite notary from Faenza and an amateur astronomer, wrote a brief manuscript in italian probably in 1680 included in a volume of the Stampe dell’Archivio della Magistratura of the Comune di Faenza. From the transcription, dedicated to ‘cosmografia’, that is the study of the sphere of the World, the most important ideas defended by the scholar from Romagna on astronomical and mathematical topics emerge: the sphericity of the earth, the Tychonian system, the location of the fixed stars, and a brief mention of the incomprehensibility of the geometry of indivisibles, already developed by Cavalieri and Torricelli. Some hypotheses are formulated on the anomalous archival placement of the manuscript, and on the rejection of the generation of the sphere through rotation of a semicircle.
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Il manoscritto e la sua collocazione cronologica e archivistica
La Sezione di Archivio di Stato di Faenza, che fa capo all’Archivio di Stato di Ravenna, ha il privilegio di conservare l’archivio storico del Comune di Faenza fino al 1956. La parte più antica dell’archivio, denominata Della Magistratura, conserva documentazione risalente al XII secolo, ma il corpus archivistico più organico e continuativo si struttura grossomodo a partire dal XVI secolo.
La storia dell’Archivio della Magistratura è molto complessa, poiché il fondo ha subìto numerose dispersioni, saccheggi, riordinamenti e spostamenti [Rabotti, Bolognesi, 1986] ([Rabotti, 1991], con ulteriore bibliografia). Difficile se non impossibile inquadrare l’origine e la logica di sedimentazione archivistica di alcune delle sue serie documentarie, come quella di nostro interesse, Bandi Stampe Editti, che pure compare già nei primi elenchi noti di questo importante archivio comunale.
All’interno della serie, nel volume denominato Decreti Scritture Stampe 1510 al 1686 sono contenuti principalmente decreti e atti a stampa del Legato di Romagna, del Governatore di Faenza, e Brevi del Papa riguardanti la gestione economica e amministrativa della Legazione e del Comune di Faenza. Ma dalla carta 426 alla carta 435 compaiono, inaspettatamente, due contributi di carattere matematico e astronomico. Il primo [c. 426r – c. 431v], a stampa, è il Cometa anni 1680 et 1681 et in eundem astronomici conatus atque physicae meditationes di Pietro Maria Cavina [Cavina, 1681], peraltro non presente integralmente (mancano la Pars Historica, le Meditationes Physicae, la Appendicula Astrologica e la pagina dedicata ad Antonio Magliabechi, nella quale Cavina si firma quale ‘Geometra Faventinus’); in questo testo la dedica a Francesco Maria de’ Medici, originariamente inserita subito dopo il frontespizio, viene posta alla fine del lavoro. Il secondo è un breve manoscritto, senza data, senza firma e senza titolo, in lingua volgare [c. 432r – 435r, alle figg. 1-4]. Nonostante manchi la data, sappiamo che la stampa precedente all’opera sulla cometa è del 1680, mentre quella successiva al manoscritto è del 1681. Possiamo quindi presumere che anche il manoscritto sia del 1681, forse come allegato all’estratto dell’opera sulla cometa. Non è possibile determinare con certezza il motivo della presenza sia dell’opera a stampa che del manoscritto, ma certamente Pietro Maria Cavina godeva di ottima fama negli ambienti governativi comunali e legatizi, come emerge anche dalla sua biografia.
Pietro Maria Cavina
Pietro Maria Cavina nacque a Faenza probabilmente tra il 1637 e il 1641 da Sigismondo Cavina, notaio. Egli stesso iniziò giovane la professione del padre (i suoi atti, conservati presso la Sezione di Archivio di Stato di Faenza, partono nel 1656 e cessano nel 1690), ebbe incarichi pubblici presso il Comune di Faenza, e anche direttamente da legati pontifici [Messeri, Calzi, 1909, p. 602] [Palma, 1979]. Dal 1677 fu nominato segretario comunale e, a seguito di studi in ambito agrimensorio, divenne perito soprintendente della Provincia di Ravenna, fungendo da consulente per due cardinali legati, Lorenzo Raggi e il suo successore Domenico Maria Corsi [Piastra, 2009].
Si trattava di un personaggio molto noto in città, e non solo per le sue cariche amministrative: Cavina era un eclettico studioso di varie materie, dalla storia locale all’ingegneria, passando, appunto, per l’astronomia. Membro di diverse accademie faentine, nonostante gli esiti piuttosto modesti delle sue ricerche, Cavina intrattenne una corposa corrispondenza con Antonio Magliabechi, bibliotecario alla corte dei Medici, oggi conservata presso la Biblioteca Centrale Nazionale di Firenze, e dette alle stampe diversi opuscoli quasi sempre per l’editore faentino Giuseppe Zarafagli [Campana, 2021, p. 193-216].
Gli esiti delle sue erudite ricerche scatenarono frequenti polemiche con i contemporanei, che trovarono numerose inesattezze e avventurose congetture nelle sue opere storiche, e non pochi errori di calcolo in quelle scientifiche. Di grande successo, all’interno della città, fu comunque l’opera del 1670, Faventia Antiquissima regio rediviva conato historico-geographico [Cavina, 1670], in cui l’autore intendeva dimostrare, tramite un esuberante florilegio di riferimenti eruditi, che il nome Faventia nell’antichità indicava l’intera Romagna.
La teoria subì diversi attacchi da altri eruditi, ma certamente contribuì al prestigio di Cavina all’interno di Faenza.
Nonostante la limitata levatura intellettuale, tramite Antonio Magliabechi, Cavina riuscì a ottenere una discreta presenza nel consesso dei letterati, anche al di fuori di Faenza. Le sue discusse conclusioni in ambito scientifico vennero incluse anche nel famoso Giornale de’ letterati (fondato a Roma da Francesco Nazzari sulla falsariga del Journal des Savants), e la sua Faenza rediviva fu ripubblicata a Leida nel 1722 in una prestigiosa pubblicazione geografico-erudita sull’Italia (Thesaurus Antiquitatum et Historiarum Italiae di Johann Georg Graeve) [Campana, 2021, p. 199, p. 210]. Pur essendo quindi un modesto, seppure infaticabile, intellettuale amatoriale, Cavina viene anche ricordato nella monumentale opera di storia della scienza di Lynn Thorndike [Thorndike, 1958, p. 664].
Il confronto con la grafia degli atti notarili di Cavina dei medesimi anni sembra indicarlo come autore del manoscritto citato. L’argomento di quest’ultimo, di cui si propone qui la trascrizione, è geometrico e astronomico. Si tratta della Scienza e cognitione della sfera del Mondo chiamata comunemente Cosmografia [c. 432r].
La trascrizione
Scioglieremo quando possibile le abbreviazioni usate, che ricalcano da vicino le abbreviazioni usuali della scrittura notarile, utilizzando le parentesi tonde. Ulteriori caratteristiche del testo (cancellazioni e disegni) saranno indicate con apposite note. I numeri fra parentesi tonde indicano il numero della carta e il numero della riproduzione fotografica a cui si riferisce.
(c. 432r, Fig. 1) Sogliono i Professori delle Scienze, prima di venire all’insegnarne li principii, tessere elogii e lodi di quella con accennarne gli utili che risultano dalla cognitione della med[esima] per invaghire la gioventù alla fatica et al desiderio di possederla. Ma la scienza e cognitione della sfera del Mondo chiamata comunemente Cosmografia, seco porta conseguenze tali per la notitia delle cose naturali e per la prudenza civile e militare che il farne catalogo saria prolisso e tedioso. Vengo dunque alla definizione della sfera.
La sfera per consenso di tutti gli astronomi e matematici viene definita essere un corpo solido contenuto sotto una sola superficie nel quale tutte le linee tirate dal centro alla superficie o circonferenza, sono fra se stesse eguali. La q[ua]le egualità di linee [per] haverla commune col circolo viene da alcuni affermato procedere il nascimento della sfera dalla circumvolutione d’un semicircolo (c. 432v, Fig. 2) fermato sopra il diametro sinché ritorni al med[esimo] punto dal quale cominciò il suo moto [disegno] come per esempio se il semicircolo A.B.C. restando fermo, et immobile il diametro AC, cominciasse il suo moto da B e passando per D tornasse di nuovo in B.
Ma a me è lecito interporre il mio sentimento, dico che dal girare d’un semicircolo non nasce corpo e per conseguenza non risulta né sfera né sferico, ma più tosto l’origine di una sfera deriva et ha il suo principio da un punto che è il suo centro, è dilatato ugualme[n]te, è ricoperto di molte superficie come è probabile succedesse quando l’onnipotenza divina creò la machina del mondo tutto.
Tale per l’appunto si vede essere la machina dell’Universo che comprende tutte le cose corporee (c. 433r, Fig. 3) create le q[ua]li non si distinguono fra loro con termini a noi visibili et apparenti ma essendo fluidi e p[er]meabili i cieli, sono stati distinti dal corso de’ pianeti, ciasched[uno] de’ quali superiore agli altri si move ne’ circoli osservati per lunga esperienza dagli astronomi come nella figura che segue [disegno].
(c. 433v, Fig. 4) E questo è il sistema mondano più corrispondente alle osservationi fra quanti siano stati inventati da scrittori, tra ‘ quali alcuni hanno voluto che il Sole sia nel centro del Mondo, e stii immobile e che la terra sii dove noi riponiamo il Sole, e si muova col moto annuo e diurno per cagionare la differenza degli anni e giorni che vediamo.
E per dimostrare che il globo terrestre sia sferico e rotondo in tutte le sue parti così terrestri come d’acque e mari che si frappongono nella superficie della Terra, è chiarissima l’esperienza cavata dall’arte navigatoria, osservandosi da’ marinai che slontanatisi da monti o torri poste in riva del mare ne perdono a poco a poco la vista e nell’avvicinarseli di nuovo li acquistano conforme si dimostra nella figura appresso (c. 434r, Fig. 4) nella quale per cagione della convessità e sfericità del globo terracqueo E quelli nella nave in C non possono vedere la torre B né meno il piede D ma quelli che sono su la cima dell’arbore in A vedranno la cima della torre B per la linea AB che passa sopra la superficie E.
Che il cielo poi sia sferico e si muova circolarmente e che la terra come cosa di grandezza insensibile rispetto all’immensità del cielo sia situata stabilmente nel mezzo e centro del med[esimo] cielo si può chiaramen[te] apprendere dalle ragioni che seguono.
Primo perché la Terra divide il cielo in dua semisferii in modo che tutti gli habitatori della Terra dalle loro regioni e climi vedono sempre la metà del cielo cioè (c. 434v) la metà del Zodiaco e la metà dell’equatore rispetto a quelli che habitano nelle zone torrida e temperate e quelli che habitano sotto li poli del mondo se fossero habitabili vedono o vedrebbero la metà del Zodiaco, havendo l’equatore per orizonte.
2. Il moto circolare si vede irrefragabilmente dalle stelle vicine alli poli, li di cui detti moti circolari si possono da tutti osservare, e quelli che habitano vicino alli poli che vedono il Sole in alcuni tempi girare tutto l’orizonte, le quali stelle apparendo sempre di una grandezza medesima si devono per forza credere essere in una superficie che col moversi in circolo conservi sempre la med[esim]a distanza dal centro, (c. 435v) il che non può succedere se non nelle figure sferiche che muovendosi sul centro tengono le stelle sempre egualmente lontane dal med[esimo] centro.
Così si move il ciel stellato con moto perpetuo e regolare da oriente ad occidente nel medesimo tempo che li pianeti con moto contrario si movono da occidente verso oriente ne’ suoi spatii periodici e temporali e massime il Sole che col suo moto e ritorno alli punti equinottialie solstitiali è regola, misura e cagione dell’anno tropico o equinottiale, della diversità delli climi e della qualità delle Zone sì celesti come terrestri e delli circoli massimi e minori che ce le dividono come vedremo.
Gli argomenti astronomici
Cavina, o comunque l’autore del manoscritto, è difensore del sistema ticoniano, come si evince dal disegno dei pianeti alla carta 433r. L’erudito faentino si era già espresso nel suo trattato Congetture fisico-astronomiche della natura dell’Universo contro il moto annuale e diurno della Terra [Cavina, 1669, p. 35-37, p. 43-44], rifacendosi anche all’argomento appena accennato della mancata variazione proporzionale della grandezza dalle stelle fisse, «le quali apparendo sempre d’una grandezza medesima si devono per forza credere essere in una superficie che col moversi in circolo conserva sempre la med[esim]a distanza dal centro». Questa specifica obiezione aveva già avuto una risposta in una delle petitiones di Copernico nel De Hypotesibus motuum coelestium commentariolius, un manoscritto steso fra il 1507 e il 1512, nel quale si argomenta che la distanza fra i pianeti e le stelle fisse è talmente grande che nessun moto della Terra sarebbe in grado di generare un apparente moto del firmamento [Rossi, 2006, p. 166-167]. Difficilmente Cavina avrebbe potuto conoscerlo, ma ciò non significa che non fosse sufficientemente avvertito sulle discussioni filosofiche e astronomiche del tempo: nelle sue Considerazioni vi sono numerosi riferimenti a opere di Galileo, Gassendi, Keplero, Tycho Brahe e Giovanni Riccioli, anche se non direttamente di Copernico. Quella della incongruente variazione di grandezza delle stelle fisse non è comunque un’obiezione da poco. Di fatto, il diametro visibile a occhio nudo delle stelle fisse è dovuto a un’illusione ottica, e quindi non ha nulla a che fare con la reale grandezza delle stesse, ma questo dato era ignoto sia a Keplero che a Tycho Brahe [Koyré, 1970, p. 55-63]. Galileo si avvicinerà a questa verità nel Sidereus Nuncius, senza tuttavia trarne troppo esplicite conclusioni [Koyré, 1970, p. 73-74].
È classica la difesa della sfericità della Terra tramite l’esperienza dei marinai che si allontanano e si avvicinano a una costa con una torre, tanto che pare ripresa, anche nel disegno tracciato a mano dallo stesso autore, dal Tractatus de Sphaera di Giovanni Sacrobosco, il trattato di astronomia più diffuso dal XIII secolo. Il testo di Sacrobosco ha conosciuto una moltitudine di edizioni [Grant, 1996, p. 33 e n. 58], alcune anche con disegni molto simili a quello tracciato alla carta 434r.
La sfericità della Terra nell’epoca in cui scrive Cavina non è realmente un’idea da difendere, essendo ormai pienamente accettata, per lo meno in ambito intellettuale e accademico [Grant, 1996, p. 626]. La compatibilità con l’ortodossia cattolica era comunque bene ribadirla, tenendo presente che un Padre della Chiesa della levatura di Lattanzio aveva ridicolizzato l’idea della sfericità del globo, e che la cosmologia biblica si prestava, se presa alla lettera, a raffigurare la Terra come piano rettangolare [Kuhn, 1972, p. 138].
A riguardo delle altre sue convinzioni astronomiche sappiamo, sempre dal suo trattato del 1669, che Cavina non era un sostenitore dell’esistenza effettiva delle sfere celesti aristotelico-tolemaiche, né tanto meno della netta divisione fra perfezione del mondo degli astri e corruttibilità e variabilità del mondo sublunare [Cavina, 1669, p. 33-35] [Thorndike, 1958]. Pur fondanti per una certa visione del cosmo, queste idee stavano perdendo potenza, e in particolar modo nella seconda metà del Seicento [Rossi, 2006, p. 179 e sgg.], oltre a essere incompatibili con gli strumenti matematici (epicicli, deferenti ed eccentrici) degli astronomi veri e propri, maggiormente interessati a possedere i mezzi per prevedere il moto degli astri, piuttosto che a formulare coerenti teorie metafisiche sulla natura del cosmo [Kuhn, 1972, p. 133-134]. D’altra parte, non sembra che tale questione potesse realmente essere un problema neppure a livello metafisico e teologico, essendo le diverse alternative comunque considerate compatibili con la visione tradizionale scolastica. Si trattava cioè di una questione su cui il dibattito filosofico poteva rimanere aperto, senza preconcette chiusure come invece accadeva col moto della Terra [Grant, 1996, p. 205].
L'andamento dello scritto in ambito cosmologico è comunque molto didascalico, e ciò potrebbe far propendere per l’ipotesi che avesse un intento didattico o divulgativo, più che scientifico. Un ulteriore indizio in questa direzione viene anche dal confronto con le altre opere di Cavina. Nei suoi trattati a stampa, compreso quello sulla cometa, egli era solito inserire molti dati provenienti da numerosissime osservazioni astronomiche, che qui sono invece completamente assenti. Come sono assenti gli accenni eruditi storici o religiosi, anch’essi usuali nei suoi scritti di argomento scientifico. Da notare comunque che nel primo paragrafo si fa accenno alla necessità di entrare subito in argomento, poiché dal punto di vista della prudenza civile e militare tutto il resto sarebbe solo un tedioso catalogo di dati; si tratta quindi forse di un compendio indirizzato alle alte sfere del potere legatizio? In quegli anni Cavina era segretario comunale, e forse introdurre una pubblicazione e un inedito nella raccolta delle stampe era nell’ambito delle sue possibilità; del resto la natura del personaggio pare decisamente ambiziosa, e certo non avrebbe disdegnato la pubblicità che gli sarebbe potuta arrivare in tal modo.
La parte più originale del manoscritto, purtroppo non particolarmente approfondita dall’autore, è quella relativa alla generazione della sfera [c. 432v]. In maniera sorprendente Cavina spiega dettagliatamente la generazione del solido tramite rotazione di un semicerchio attorno al diametro, illustrando la spiegazione anche con un semplice disegno. Subito dopo, tuttavia, si affretta a negare la possibilità di questa generazione, invocando un processo decisamente poco matematico, ma molto più metafisico: la formazione della sfera tramite ’espansione’ di un punto geometrico, similmente a quanto avvenuto al momento della creazione del mondo. Per quale motivo il nostro autore liquida così in fretta la generazione della sfera tramite un metodo che ricorda molto da vicino la geometria degli indivisibili di Cavalieri e poi di Torricelli (che tra l’altro era anche suo concittadino)?
Una possibilità è che accettare la generazione della sfera a partire dalla rotazione di un suo segmento avrebbe portato Cavina verso considerazioni filosofiche più problematiche rispetto alle credenze religiose e metafisiche ortodosse. Seguiamo questa strada, facendola partire dal dialogo di Galileo Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, che presenta i medesimi personaggi del Dialogo sui massimi sistemi. Nella prima giornata Galileo [Galilei, 1638, p. 21 e sgg.] presenta un paradosso su due esagoni di diversa grandezza con un centro coincidente, che vengono fatti ruotare lungo una linea che ne attraversa il centro. Nel corso della rotazione i perimetri delle due figure coprono delle distanze diverse, e risulta più ampia quella tracciata dall’esagono maggiore. Ma immaginando di aumentare il numero di lati, arrivando anche a migliaia di lati, questa differenza va sempre più assottigliandosi. Replicando lo stesso ragionamento con due circonferenze concentriche, si raggiunge l’incredibile risultato che entrambe percorrono la stessa identica distanza. Pur essendo di difficile visualizzazione, secondo Salviati, questo esperimento mentale è perfettamente comprensibile finché coinvolge poligoni anche di centomila lati, situazione nella quale il percorso sarebbe formato da centomila piccolissimi tratti alternati a centomila vuoti. Il passaggio al cerchio fa saltare all’infinito questa sequenza: i cerchi sono poligoni dai lati infiniti; quindi, la sequenza di lati e vuoti deve essere estesa all’infinito, tutti ‘non quanti’, cioè senza una misura definita misurabile. La circonferenza, «immaginandola risoluta in parti non quante, cioè ne suoi infiniti indivisibili», spiega il paradosso [Galilei, 1638, p. 26] poiché le due circonferenze hanno lo stesso infinito numero di infiniti punti.
Questo primo esempio di discussione matematica dell’infinito potrebbe in effetti condurre a esiti sgraditi alle gerarchie ecclesiastiche. Da un lato, potrebbe rimandare alla filosofia atea democritea, fondata su indivisibili e vuoti. «Parmi che voi caminiate alla via di quei vacui disseminati di certo filosofo antico» dice Simplicio, «il quale», esplicita Salviati, «negava la Providenza Divina» [Galileo, 1638, p. 26]. Galileo si affretta a confermare la propria ortodossia cattolica facendo subito ritirare a Simplicio l’illazione, ma la questione rimane sul tavolo, a metà fra una facile accusa fondata sul semplice riferirsi all’empio atomista antico, e una più confusa e intricata problematica relativa alla paradossale natura dell’infinito.
La necessità di iniziare a considerare concepibile e scientificamente descrivibile il concetto di infinito in atto è tuttavia fondamentale per il futuro sviluppo delle scienze. Per David Foster Wallace, che scrive una storia dell’infinito dal tono forse poco accademico, ma di innegabile profondità epistemologica, è proprio il testo di Galileo a presentare «il primo atteggiamento veramente moderno nei confronti degli infiniti attuali come entità matematiche» [Wallace, 2011, p. 86]. La sua modernità è data precisamente dalla considerazione dell’infinito ‘in atto’ e non ‘potenziale’, uno dei confini che separavano la nuova scienza dai residui della cultura tradizionale aristotelica e religiosa. Solo Dio può concepire un infinito in atto, mentre l’uomo, finito, può tuttalpiù ragionare sull’infinito potenziale. È infatti sufficiente l’infinito potenziale se si concepisce come coerente la possibilità di dividere un segmento all’infinito, o di contare i numeri naturali uno dopo l’altro senza trovare una fine. Ma senza infinito in atto, considerato come un concetto coerente e matematicamente descrivibile, non ci sarebbe stata l’analisi infinitesimale e neppure la successiva speculazione che culmina con il transfinito di Cantor. Per Wallace il dialogo di Galileo, su questo punto, è da considerare uno sberleffo all’autorità cattolica che aveva condannato il suo più celebre dialogo sui massimi sistemi. Lo sviluppo di queste idee passerà poi da Cavalieri e Torricelli, che apriranno la vera e propria strada verso il calcolo infinitesimale [Boyer, 1980, pp. 377-384].
Tuttavia, Pietro Maria Cavina forse non avrebbe avuto la capacità di comprendere appieno queste sofisticate sfumature matematiche e teologiche. Quindi, il suo laconico rifiuto di considerare la generazione della sfera a partire dagli ’indivisibili’ potrebbe sia indicare la consapevolezza della pericolosità di questa strada per un servitore della Chiesa Cattolica sia, molto più semplicemente, la sua incapacità di comprendere questo genere di speculazione matematica.