N.1 2024 - Scientia | Giugno 2024

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De-costruire il razzismo. Percorsi per la scuola secondaria di primo grado

Agnese Ghezzi

Scuola IMT Alti Studi Lucca agnese.ghezzi@imtlucca.it

Beatrice Falcucci

Universitat Pompeu Fabra Barcelona beatrice.falcucci@upf.edu

Fedra A. Pizzato

Università di Verona e IAUB Barcelona fedraalessandra.pizzato@univr.it*

Received 10/05/2023 | Accepted 2/09/2023 | Published online 21/06/2024

Sebbene l’articolo sia frutto del lavoro collettivo delle tre autrici, Beatrice Falcucci e Agnese Ghezzi hanno collaborato nella stesura del paragrafo Introduzione: razzismo e colonialismo dal public debate alla didattica, Agnese Ghezzi ha scritto il paragrafo Sguardo, immagine e immaginari coloniali, Beatrice Falcucci ha scritto il paragrafo Il patrimonio e l’“altro”: percorsi di conoscenza tra oggetti, reperti e storie, Fedra Pizzato ha scritto il paragrafo Archeologia e razzismo: perché riflettere sulle ‘prove materiali’ dell’appartenenza etnica nella scuola, le conclusioni sono state elaborate da tutte le autrici.

Abstract

Il saggio si propone di presentare alcune riflessioni ed esempi pratici volti alla realizzazione di percorsi formativi attorno ai temi del razzismo e del colonialismo, al fine di sviluppare in classe un’attitudine critica su tali complesse tematiche. In particolare, l’articolo trae ispirazione da un corso di formazione proposto dalla Società Italiana di Storia della Scienza a un gruppo di docenti di scuola secondaria di primo grado, particolarmente incentrato sull’utilizzo di fonti e materiali storici e lo sviluppo di attività laboratoriali. A partire da questa esperienza, si propongono osservazioni metodologiche più ampie volte a indagare in una prospettiva storica la relazione che intercorre tra razzismo, colonialismo e le pratiche e i materiali su cui questi fenomeni si sono costituiti, andando ad indagare in particolare la relazione con le collezioni museali, le fonti visuali e l’archeologia.

English abstract

The essay aims to present some reflections and practical examples aimed at creating training courses around the themes of racism and colonialism, in order to develop a critical attitude on these complex issues in the classroom. In particular, the article takes inspiration from a training course proposed by the Italian Society of History of Science to a group of lower secondary school teachers, particularly focused on the use of historical sources and materials and the development of laboratory activities. Starting from this experience, broader methodological observations are proposed aimed at investigating in a historical perspective the relationship between racism, colonialism and the practices and materials on which these phenomena were constituted, investigating in particular the relationship with the collections of museums, visual sources and archaeology.

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Introduzione: razzismo e colonialismo dal Public Debate alla didattica

La storia coloniale dell'Italia è stata sovente dimenticata e sminuita, nobilitata o accantonata come una parentesi innocua, come hanno testimoniato a più riprese le azioni e le dichiarazioni di politici e intellettuali attraverso i decenni. Ciò è avvenuto nonostante una larga parte della popolazione italiana conservi ancora, nella propria memoria familiare, tracce di quel passato. Eppure, la storia coloniale italiana, con il suo portato di violenza e discriminazione, non riguarda soltanto i nostri avi: essa è invece molto vicina a noi, nelle pesanti eredità materiali (come oggetti, immagini, toponimi e parole) e immateriali (come pratiche e atteggiamenti razzisti, a opera di privati e istituzioni) nella nostra società. La pervasività materiale, prima ancora che ideologica, del colonialismo nelle vite degli italiani è testimoniata sia nello spazio pubblico - dalla presenza di monumenti dedicati a generali e governatori coloniali o dalla toponomastica di piazze, strade e quartieri che si rifanno a violente battaglie e stragi - che nello spazio privato - dalle collezioni di fotografie e cartoline riportate da militari e famiglie di coloni e ancora conservate in molte case italiane [Falcucci, Iannuzzi, Mancosu, 2023]; [Budasz, Wurzer, 2023]; [Belmonte, 2021]; [Bertella Farnetti, Mignemi, Triulzi, 2013].

La conoscenza legata alle vicende italiane in Africa è poi generalmente filtrata attraverso il mito degli ‘italiani brava gente’, pacifici costruttori di strade e ospedali in paesi abitati da popoli ‘primitivi’ e ‘selvaggi’, costruito ad arte dal fascismo e che sopravvive ancora oggi. Autoassoltasi con la caduta del regime e con la conseguente perdita dell’impero coloniale, l’Italia non ha fatto i conti con il proprio passato di potenza coloniale violenta e razzista e con il complicato processo di decolonizzazione [Labanca, 2002]; [Del Boca, 2005]. D’altra parte, nessun esito ha avuto la proposta di dedicare il 19 febbraio a una giornata in ricordo delle vittime del colonialismo italiano (progetto di legge 1845 del 23 ottobre 2006). La giornata avrebbe dovuto ricordare la data dell’eccidio della popolazione civile di Addis Abeba compiuto dall’esercito italiano nel 1937, ma sarebbe stata dedicata anche a tutte le vittime africane durante l’occupazione coloniale italiana, ossia i circa 500.000 africani uccisi durante il periodo coloniale in Eritrea, Etiopia, Libia e Somalia. Come ricordava il testo della proposta di legge, il massacro di Addis Abeba è stato escluso dalla ‘nostra’ memoria collettiva [Campbell, 2018]. Memoria di cui, al contrario, sembra far pienamente parte il perpetratore del massacro di Addis Abeba (e responsabile dello spostamento forzato e detenzione in campi di concentramento di decine di migliaia di persone in Cirenaica, [Salerno, 1979]) Rodolfo Graziani, a cui nel 2012 veniva eretto ad Affile un sacrario, finanziato con 127 mila euro dalla Regione Lazio. Inoltre, le eredità di lungo periodo del colonialismo nella gestione della cosiddetta ‘crisi migratoria’, nei percorsi di accesso alla cittadinanza e nel diffuso razzismo antinero pongono in evidenza quanto difficile, e per certi versi del tutto assente, sia stata l’elaborazione del passato coloniale [Tintori, 2009]; [Giuliani, 2015]; [Deplano, 2017]; [Di Sanzo, 2020]; [Di Sanzo, Falcucci, Mancosu, 2023]; [Longhi, 2023].

Molti elementi motivano ancora oggi questo stato di cose. Tra di essi è possibile sicuramente individuare la carenza dei piani formativi scolastici, la mancanza di libri di testo adeguati, la scarsa attenzione dedicata a questi temi nei percorsi tradizionali di formazione dei docenti. La rimozione della memoria coloniale, infatti, si struttura anche attraverso il mancato trattamento dell’esperienza coloniale all’interno dei programmi scolastici oppure di una sua trattazione cursoria all’interno di cronologie storiche improntate al racconto della storia nazionale dell’Ottocento e Novecento. La realizzazione di percorsi e laboratori per ragazze e ragazzi volti alla messa in discussione della storia coloniale, dei pregiudizi razzisti, delle tracce materiali del passato imperiale, ha visto negli ultimi anni una nuova diffusione, a partire da proposte di musei e spazi culturali o all’interno delle classi scolastiche. Al contempo, la figura del Public Historian ha assunto particolare rilevanza rispetto alle possibilità di creare un ponte tra le discipline storiche e la società [Tomassini, Biscioni, 2019]. Il patrimonio culturale, del resto, è stato identificato come una fonte imprescindibile per la storia e la memoria sociale, soprattutto per quanto riguarda la didattica della storia, favorendo uno scambio interdisciplinare fecondo tra gli studiosi [Bandini, 2019]; [Ascenzi, Bandini, Ghizzoni, 2023]; [Brusa, 2023]; [Giorgi, 2023]. In questo contesto la storia della scienza, caratterizzata dall’attenzione al costituirsi delle strutture di sapere e alle pratiche scientifiche come pratiche sociali e materiali, si presenta come una lente di osservazione privilegiata per indagare la genesi di idee ed esperienze culturali complesse e connotate come quelle legate alla storia coloniale, offrendosi come un laboratorio del sapere che possa fornire contributi sostanziali e irrinunciabili grazie agli strumenti metodologici e disciplinari che la caratterizzano.

Il corso di formazione per docenti “Razzismo, Colonialismo e Storia della Scienza” attivato dal gruppo Scuola della SISS nell’anno scolastico 2022-2023, ha cercato di porsi all’intersezione tra questi pubblici, attori e campi di indagine, coinvolgendo gli insegnanti all’interno di un percorso che da una parte li conduca a una riflessione sulle tematiche della costruzione di identità, del razzismo e delle eredità culturali e materiali del colonialismo nella nostra società, dall’altra a una riflessione su come proprio queste permanenze abbiano a lungo pesato sulla strutturazione di curricula scolastici, sui libri di testo, sulle immagini e, più in generale, sul modo di guardare all’alterità. L’obiettivo del corso di formazione è stato dunque quello di offrire al corpo insegnante degli strumenti didattici e riflessivi aggiornati e integrati tra loro per affrontare e approfondire tematiche legate al colonialismo, razzismo, culturalismo e nazionalismo. In questo senso, la storia della scienza, delle conoscenze e dei saperi offre una piattaforma che permette di evidenziare la natura dei processi culturali come ‘aperti’ e in continua definizione, oltre che di decostruire immaginari e pratiche di lungo periodo, che hanno permeato (e ancora permeano) l’urbanità, i musei, i programmi scolastici italiani.

L'attenzione pubblica ai temi quali il razzismo e il mantenimento di stereotipi coloniali è cresciuto negli ultimi anni, in relazione a movimenti quali Black Lives Matter o al dibattito sui monumenti che ha generato una riconsiderazione del ruolo dei musei e degli spazi pubblici nel preservare una memoria complessa e violenta. Già da qualche decennio, in ambito teorico e accademico, si è sviluppata un’attenzione attorno al cosiddetto Difficult Heritage [Macdonald, 2008], una riflessione critica sulla modalità di creazione del patrimonio culturale e sui processi di memorializzazione collettiva. A partire da questa consapevolezza, il corso, più che incentrarsi sulle vicende storiche legate alla storia coloniale, aveva lo scopo di mostrare attraverso alcuni concetti chiave il modo in cui razzismo, colonialismo e storia della scienza fossero indissolubilmente legati, e di come quest’ultima potesse farsi strumento non solo interpretativo dei primi, ma anche risorsa per contrastarne gli effetti ancora oggi presenti nella nostra società. Lo scopo del percorso è stato anche quello di mostrare come queste tematiche potessero affiorare all’interno di lezioni non solo di storia e geografia, ma collegarsi a questioni interdisciplinari connesse alla storia culturale, la letteratura, l’educazione civica, le scienze. La storia della scienza - declinata sull’attenzione ai processi e all’interazione tra attori e attrici sociali, materiali, idee, spazi e presunta ‘oggettività’ dei dati ‘scientifici’ - ha funzionato quindi da contenitore-mediatore entro cui far risuonare queste riflessioni, facendo particolare attenzione al modo in cui categorie interpretative e modalità di descrizione e catalogazione della realtà (come quelle messe in campo tramite esposizioni e musei) fossero particolarmente connesse allo sviluppo di idee razziste e di progetti coloniali.

Il corso, realizzato presso l’Istituto Comprensivo 16 Bologna e rivolto al corpo docenti della Scuola secondaria di primo grado, si è proposto di indagare con una prospettiva critica il legame tra storia della scienza, colonialismo e sviluppo delle teorie razziste, con una particolare attenzione alla storia italiana, al ruolo della cultura materiale, alla costruzione di immaginari visuali, all’analisi del patrimonio scientifico-museale. Il percorso si è articolato in tre moduli con l’obiettivo di indagare, attraverso prospettive diverse, il legame tra razzismo, colonialismo e storia della scienza: il primo modulo incentrato sul ruolo e la funzione delle immagini a cura di Agnese Ghezzi, il secondo segmento sulle collezioni museali a cura di Beatrice Falcucci, e il terzo dedicato ad archeologia e identità a cura di Fedra A. Pizzato. Il presente contributo intende riprendere questa struttura tripartita, mettendo in luce le tematiche centrali affrontate nel corso e il legame con più ampie questioni disciplinari, la loro relazione con la storia della scienza e con la didattica in classe. Infatti, il corso intendeva fornire materiali, strumenti e metodologie per affrontare queste tematiche, attraverso il riferimento a siti di approfondimento disponibili online, visite guidate presso istituzioni culturali della città, laboratori didattici interattivi e riflessioni condivise tra formatrici e docenti sullo stato dell’arte e le innovazioni didattiche possibili e necessarie in una scuola sempre più multiculturale. In conclusione al presente contributo, si propongono alcune riflessioni generali nate dal confronto con i docenti in formazione, che possono risultare utili a sviluppare successivi percorsi didattici nelle scuole che tengano conto degli strumenti e delle riflessioni della storia della scienza.

Sguardo, immagini e immaginari coloniali

Il ruolo delle immagini nel costruire sia a livello scientifico che sociale e culturale il concetto di razza e di alterità è stato analizzato da numerosi contributi negli ultimi decenni, che hanno intersecato l’analisi del discorso scientifico con le pratiche visive a esso correlate e le relazioni che intercorsero con più ampi fenomeni, come la creazione di immaginari popolari e diffusi [Rony, 2004]; [Prodger, 2009]; [Bancel, David, Thomas, 2014]; [Morris-Reich, 2015]. Tra questi, alcuni hanno sottolineato il legame strettissimo che ha collegato fotografia, colonialismo e antropologia e le ‘storie parallele’ [Pinney, 1992]; [Edwards, Morton, 2009]; [Pinney, 2011] che hanno caratterizzato il loro sviluppo e diffusione. Con questo non si intende solo lo sviluppo cronologico, che a partire dalla metà dell’Ottocento vedrà lo strutturarsi del colonialismo moderno, la nascita e istituzionalizzazione della disciplina antropologica, l’invenzione della fotografia (convenzionalmente fissata al 1839) e il veloce susseguirsi di nuove pratiche e tecniche per fissare immagini meccanicamente. La relazione tra questi tre macro-oggetti ha piuttosto a che vedere con lo sviluppo di un certo modo di guardare e inquadrare le culture, che muove da un presupposto evoluzionista basato sull’idea di superiorità occidentale, e lo strutturarsi di uno sguardo sulla diversità profondamente radicato e ancora evidente in immagini e immaginari contemporanei.

Se il processo critico e di mutamento metodologico a cui la disciplina antropologica si è sottoposta in seguito al processo di decolonizzazione ha portato a una revisione delle sue strutture interpretative, l’analisi storica e il riconoscimento del coinvolgimento della disciplina nelle politiche coloniali può servire per riflettere sul processo e sul farsi di una disciplina scientifica in termini di storia culturale [Stocking, 1983]; [Clifford, 1997]; [Fabian, 1983]. In campo italiano, la riconsiderazione in chiave critica del portato coloniale e della cultura positivista si è sviluppata sia dall’interno della disciplina che attraverso il lavoro di storiche e storici della scienza. In parallelo, la rinnovata attenzione agli archivi fotografici coloniali, cominciata in Italia negli anni ’90, ha permesso lo sviluppo di ricerche che integrassero la fotografia tra le fonti storiche di riferimento per lo studio del colonialismo e dell’antropologia [Mignemi, 1982]; [Goglia, 1989]; [Chiarelli, Chiozzi, Chiarelli, 1996]; [Faeta, Ricci, 1997]; [Palma, 1999]; [Palma, 2005]; [Triulzi, 1995]; [Zaccaria, 2001]; [Zaccaria, 2008]; [Baldi, 2017]; [Ghezzi, 2021].

L’obiettivo del modulo formativo era proprio quello di cogliere, attraverso l’uso di esempi e casi di studio legati in particolare al medium fotografico, come il modo di rappresentare lo spazio coloniale e più in generale le popolazioni extra-europee (non solo in Africa ma anche in Sud America, Australia, Asia) fosse tutt’altro che neutrale. Per decostruire la naturalità di questo sguardo, gli studi di storia della scienza hanno contribuito a scalfire la presunta oggettività meccanica della fotografia [Daston, Galison, 2007], cioè l’idea tutta positivista che la fotografia potesse essere uno strumento eminentemente scientifico perché capace di riprodurre la realtà automaticamente, senza il bisogno di una mediazione umana e quindi senza essere viziata da una resa soggettiva e parziale. La possibilità di ridurre all’interno di un atlante visivo tutte le varietà umane, si scontrava invece nella pratica con i meccanismi sia tecnici e materiali che culturali e sociali che sottintendevano alla realizzazione delle fotografie. Queste riproduzioni così, più che raccontare qualcosa rispetto al soggetto rappresentato, diventano quindi un importante strumento per indagare chi quelle fotografie le realizzava, le commissionava, le usava come ‘oggetti di conoscenza’ [Bärnighausen et al., 2019].

Lo studio della fotografia all’interno della storia della scienza si connette quindi più ampiamente alla storia dell’osservazione e all’analisi dei processi e degli strumenti con cui la scienza ha cercato di direzionare lo sguardo di diversi attori sociali [Daston, Lunbeck, 2011], ma anche al legame non eliminabile che lega le immagini scientifiche a schemi e forme artistici [Thomas, 1997]; [Bredekamp, Dünkel, Schneider, 2015]; [Addabbo, Casati, 2022]. Al fine di analizzarli come fonti storiche, è quindi necessario conoscere le condizioni e il contesto in cui questi oggetti fotografici erano realizzati, considerando sia le limitazioni tecniche (legate ai tempi di posa, la luce, l’esposizione e lo sviluppo) che quelle provenienti dall’impostazione e dal posizionamento culturale (la scelta prospettica e dei soggetti, la relazione spesso squilibrata che intercorreva tra fotografo e soggetti fotografati). L’impianto didattico del percorso ha quindi connesso nozioni e riferimenti provenienti dalla storia dell’antropologia e del colonialismo con metodologie provenienti dagli studi visuali della scienza e la storia della fotografia.

Durante la prima parte del corso si sono mostrate diverse tipologie di documenti fotografici legati alla storia del colonialismo e del razzismo, al fine di allenare lo sguardo a smascherare la costruzione insita nel processo fotografico. Tramite l’analisi della fotografia antropometrica, si è potuta analizzare la tendenza misuratrice dell’antropologia ottocentesca, volta a rendere visibili e misurabili i tratti somatici delle diverse popolazioni inserendole in una tassonomia evolutiva e razziale. Le fotografie realizzate da studi fotografici per esposizioni etnografiche o stabilitisi nel territorio coloniale hanno permesso di evidenziare i meccanismi volti a una resa estetizzante dell’alterità rappresentata come ‘primitiva’ e ‘selvaggia’, ponendo anche interrogativi sul legame tra arte e scienza e sul modo in cui la documentazione scientifica si rifacesse a convenzioni visuali e stili artistici ricorrenti. L’ambizione imperiale e l’atto predatorio della fotografia [Sontag, 1977] si sono potuti riscontrare anche in quei documenti con uno stampo maggiormente documentaristico, connessi allo sviluppo tecnico della fotografia e alla possibilità di realizzare più agilmente fotografie sul campo e all’esterno. Arrivando a considerazioni sul legame tra razza, classe e genere nel sistema coloniale [McClintock, 1995], l’analisi delle cartoline coloniali ha permesso di rendere evidente la costruzione dello stereotipo della Venere Nera e la produzione e circolazione di immagini erotiche provenienti dalla colonia, volte a oggettificare il corpo della donna africana come qualcosa di misterioso da conquistare [Campassi, Sega, 1983]; [Sòrgoni, 2003]. Questo meccanismo operava in analogia con la visione dello spazio africano che si costruiva attraverso le esplorazioni geografiche, in cui l'intenzione di controllare generava una rappresentazione immaginifica dei territori come deserti e disponibili alla scoperta [Hight, Sampson, 2002]; [Ryan, Schwartz, 2003]. L’immaginaria dicotomia tra spazio metropolitano e spazio coloniale sgombrava il campo invece dalle contraddittorie e concrete pratiche di contatto tra mondo europeo e africano, la fascinazione, gli scambi culturali, e tutte quelle Contact Zones [Pratt, 1991] che la ricerca storica ha il dovere di rintracciare anche attraverso l’analisi dell’oggetto fotografico, che più di altri permette di portare alla luce l’ineliminabile dimensione relazionale insita in questi processi [Edwards, 2015]; [Lydon, 2017].

Nella seconda parte del modulo, si sono in particolare messe in relazione queste modalità di rappresentazione con la loro diffusione sulla stampa illustrata. Questo ha permesso di legare ancora di più l’analisi delle fotografie e delle immagini agli oggetti fisici tramite cui queste rappresentazioni circolavano, rendendo evidente da un lato la materialità delle immagini (il loro essere ancorate a un supporto e a mezzi che ne permettano la loro riproduzione ed esposizione) e dall’altro la pervasività dell’immaginario coloniale nell’esperienza quotidiana. Guardando per esempio l’utilizzo di fotografie e immagini nella stampa di regime, come la rivista La difesa della razza, si è posto l’accento sul ruolo dell’accostamento grafico e del collage nel trasmettere visivamente, prima ancora che a parole, la direzione dell’ideologia fascista e razzista dopo la promulgazione delle leggi razziali del 1938, in cui discorso scientifico e politico erano profondamente legati [Centro Furio Jesi, 1994]; [Piccioni, 2022]. Per approfondire questo tema, si è realizzato un incontro presso la Biblioteca Amilcar Cabral, specializzata in tematiche postcoloniali. In particolare, si sono presi in esame i materiali del fondo Lasagni [Chelati Dirar, 1996] tra cui si erano selezionati materiali come relazioni di viaggio, testi antropologici e riviste illustrate legate al periodo coloniale. L’accostamento di diverse tipologie di fonti testuali che presentavano un elemento visivo, grafico o fotografico importante, ha reso evidente il ruolo delle immagini non tanto come illustrazioni di accompagnamento ma come strumenti che, nella relazione dinamica con il testo, avevano un ruolo fondamentale nel trasmettere una determinata idea di razza e di colonia, che transitava dal registro scientifico a quello romanzesco a quello militare. L’uscita è stata anche l’occasione per notare le permanenze di una certa modalità di guardare allo spazio coloniale, passando dall’Italia liberale all’impero fascista fino all’Italia repubblicana. L’analisi ad esempio dell’inserto Faccetta Nera, uscito per la Domenica del Corriere tra il 1965 e il 1966, ha permesso di rendere evidenti le continuità visive nel raccontare la conclusa vicenda coloniale, fornendo un chiaro esempio di quel processo di scarsa messa in discussione del passato coloniale già evidenziato nel saggio.

Attraverso la disamina di diverse tipologie di documenti visuali, si è cercato di porre l’accento sulla costruzione insita nella fotografia, scalfendo il suo status di documento illustrativo di una porzione del reale, fornendo gli strumenti per discutere anche in classe i diversi livelli di significato presenti nella fotografia. L’attenzione data agli strumenti e alle fonti con cui la scienza si è costruita ha permesso di sviluppare una riflessione sulle forme e le tendenze dello sguardo coloniale basato sui materiali, potendo quindi comprendere attraverso gli oggetti come non solo la scienza ma anche la politica e la cultura coloniale si fossero costruite. La crescente attenzione al patrimonio fotografico coloniale presente in musei e collezioni pubbliche ha generato negli ultimi anni tentativi di ripensare le modalità espositive di questi materiali complessi e oggetti sensibili [Edwards, Lien, 2014] cercando di scardinare il pregiudizio di veridicità spesso applicato acriticamente alla fonte fotografica, mettendone invece in luce i processi di messa in scena, le modalità di accreditamento e le strutture di potere e di controllo circostanti. Le operazioni curatoriali stanno anche ripensando le forme espositive in termini di etica dell’immagine, riflettendo sulla necessità di mostrare o meno determinate immagini e sulla possibilità di interrompere la violenza dello sguardo che le ha prodotte, intervenendo sull’immagine a livello visuale o attraverso testi di accompagnamento che facciano riflettere gli spettatori e le spettatrici sulla funzione e la potenza dello sguardo [Grechi, 2016]; [InteRGRace, 2018]; [Burdett et al., 2019]; [Cippitelli, Frangi, 2021]; [Haeckel, 2021]; [Ghezzi, 2023].

Il patrimonio e l’altro: percorsi di conoscenza tra oggetti, reperti e storie

Le permanenze coloniali in Italia, come evidenziato nell’introduzione di questo articolo, sono molteplici e assumono numerose forme: sono ben documentate, ad esempio, le eredità retoriche e pratiche legate al periodo coloniale all’interno dei programmi scolastici e dei libri di testo per le scuole [De Michele, 2011]; [Gabrielli, 2020]. Continuità in epoca post-coloniale sono da segnalarsi anche all’interno di istituzioni culturali, economiche e politiche [Giorgi, 2012]; [Zaccaria, 2018]; [Falcucci, 2022a]. Come già rilevato, tuttavia, tra le eredità culturali più significative vi sono senza dubbio quelle legate agli stereotipi razziali, che affondano le proprie radici (anche) nel periodo coloniale, e che hanno assunto con il passare del tempo fisionomie complesse e peculiari [Giuliani, Lombardi-Diop, 2013]; [Frisina, Farina, Surian, 2023].

Tra le permanenze materiali, invece, quelle che riguardano il patrimonio si configurano oggi come particolarmente rilevanti: il cosiddetto Cultural Heritage si presenta infatti come uno dei terreni privilegiati di scontro e negoziazione tra nazioni, comunità e gruppi di interesse proprio in relazione alle eredità coloniali e razziste nel presente. Se il colonialismo, tanto quello di età moderna quanto quello di età contemporanea, ha avuto un impatto profondo sulle vite, l’ambiente e il futuro delle popolazioni colonizzate, non meno rilevante è stato l’impatto sul loro patrimonio (una nozione, del resto, anch’essa prettamente europea nella sua accezione ‘classica’).

Nel 2006 la studiosa di museologia Laura Jane Smith, riprendendo la questione posta qualche anno prima dal sociologo Stuart Hall con il suo celebre interrogativo ‘Whose Heritage?’, coniava l'acronimo AHD. Nel suo volume Uses of Heritage Smith evidenziava le radici del concetto di patrimonio come intrinsecamente occidentali (e coloniali); di conseguenza Smith teorizzava l'esistenza di un unico Autorized Heritage Discourse volto a imporre un'idea di patrimonio univoca e universale, che non prevede altre opzioni [Smith, 2006]. Sin dai tempi delle Wunderkammer (o dei primi veri e propri musei pubblici come gli Uffizi, il Louvre o i Musei capitolini), del resto, sono state le istanze politiche, sociali ed economiche a modellare la selezione degli oggetti, l’esposizione delle collezioni e il loro allestimento. Se, agli occhi ‘occidentali’, esiste un solo modo di fruire il patrimonio (conservandolo, valorizzandolo, musealizzandolo in un certo modo...), coloro che non si riconoscono (o sono riconosciuti) in tale idea di gestione del patrimonio non sono considerati sufficientemente attrezzati dal punto di vista culturale per impostare un discorso su di esso. Come Simona Troilo ha sottolineato per il caso della celebre statua della Venere di Cirene, gli argomenti contro la sua restituzione alla Libia nel 2008 ricalcavano in larga parte quelli a favore del suo trasporto in Italia a seguito dell'invasione del paese nel 1911, evidenziando l'incapacità dei libici di prendersi adeguatamente cura della preziosa statua ellenistica e, di conseguenza, squalificando ogni loro pretesa o istanza circa la statua [Troilo, 2018].

Il tema della restituzione dei beni culturali sottratti dai paesi europei durante il periodo coloniale ha cominciato a svilupparsi solo nella seconda metà del secolo scorso, in coincidenza con la stagione delle indipendenze africane. Esso, tuttavia, ha acquisito un nuovo slancio a livello globale in coincidenza con lo sviluppo delle proteste anti-razziste di Black Lives Matter del 2020, a seguito dell’omicidio di George Floyd.

Il 12 giugno 2020 l'attivista congolese Mwazulu Diyabanza ha prelevato una stele funeraria dall'allestimento del Musée du Quai Branly di Parigi, cercando di recarsi verso l'uscita, dichiarandosi intenzionato a ‘recuperare quello che ci appartiene’. Si tratta dell’ennesima rivendicazione legata all’intenso dibattito sui musei europei (e sul modello espositivo occidentale in generale) e la loro pesante, ambigua e controversa eredità coloniale; una discussione che pur andando avanti da decenni – anche con applicazioni pratiche, ad esempio con la museologia di collaborazione messa in pratica dagli anni Ottanta in Canada – si è intensificata negli ultimi anni. Nel novembre 2017, in occasione di un discorso presso l’Università di Ouagadougou in Burkina Faso, il presidente Macron ha dichiarato di voler invertire il comportamento sino ad allora tenuto dalle istituzioni culturali francesi, procedendo, nell’arco di cinque anni, alla restituzione temporanea o definitiva del patrimonio culturale africano conservato in Francia. Soltanto l’anno precedente la Francia aveva negato al Benin la restituzione di alcune statue e preziosi trafugati nel 1892 dal colonnello Dodds durante le guerre franco-dahomeane (incluso il trono dorato di Re Béhanzin) e donate al museo di Trocadéro (dalle cui collezioni etnografiche, nel 1995 nasce il Musée du Quay Branly per volere del Presidente Chirac).
Commissionato da Macron, il report Sarr-Savoy del 2018 ha approfondito le possibilità etiche e culturali relative alla circolazione e restituzione di materiali e opere d’arte africane presenti nei musei francesi, individuando con precisione alcuni oggetti del Quai Branly dai quali cominciare l’operazione, ma indicando anche altri musei come detentori di patrimonio culturale ed artistico legato a saccheggi e violenze ai danni delle cosiddette Source Nations. Tra questi il British Museum, l’Africa Museum di Tervuren, il Weltenmuseum di Vienna.

Del resto, ed è utile pensarlo proprio in riferimento al museo parigino, che conserva oltre 300.000 oggetti di cui soltanto circa 3.000 in esposizione, George Stocking ha chiesto provocatoriamente: «in un contesto in cui almeno il 90% di tutti i campioni etnografici dei musei non sono probabilmente mai neppure stati studiati […], la questione può essere seriamente posta “L’antropologia ha bisogno dei musei?”» [Stocking, 1985, p.9]. Sebbene Stocking si concentrasse sui musei etnografici, la sua domanda provocatoria può essere ampliata ai musei relativi a molte altre discipline come un invito ai musei ‘occidentali’ a ripensare nel profondo la propria missione, che non può limitarsi alla pura e semplice conservazione e non può sottrarsi a sfide che ne mettono profondamente in discussione le stesse fondamenta teoriche [Dias, 2000].

D’altra parte, anche l’ICOM, International Council of Museums (organizzazione internazionale fondata nel 1946 che rappresenta i musei e i suoi professionisti), sembra aver recepito le crescenti richieste di inclusione espresse da numerosi settori della società negli ultimi decenni, rispondendo con una nuova definizione di museo, approvata durante l’Assemblea di Praga dell’estate 2022. La nuova definizione si esprime così:

Il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro e al servizio della società, che effettua ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio materiale e immateriale. Aperti al pubblico, accessibili e inclusivi, i musei promuovono la diversità e la sostenibilità. Operano e comunicano eticamente e professionalmente e con la partecipazione delle comunità, offrendo esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione di conoscenze.

Se etica e partecipazione risultano essere, almeno sulla carta, al centro della ‘nuova missione’ dei musei, possono essi, nel contesto di grande fermento intellettuale e pratico che si è descritto, farsi strumenti per coadiuvare lo studio dell’alterità, del colonialismo e del razzismo?

Per quanto riguarda il caso italiano, l’attenzione a oggetti e collezioni extra-europee e coloniali e al loro portato razzista e discriminatorio è giunta con un certo ritardo rispetto ad altri Paesi europei e nord-americani. Nel 1992 il volume collettaneo L’Africa in vetrina. Storie di musei e di esposizioni coloniali in Italia curato da Nicola Labanca testimoniava un primo tentativo di indagine in questo senso. Il volume, di fatto, preparava il terreno per i lavori che sono seguiti nell’ambito dello studio delle collezioni e dei musei del colonialismo italiano, impostando linee di ricerca ancora oggi significative. In una congiuntura particolarmente interessante, lo stesso anno cinquecento tra politici e intellettuali etiopici domandarono con forza all’Italia «yimelles!» («restituitelo!») riferendosi all’obelisco di Axum, preda bellica portata in Italia a seguito dell’invasione dell’Etiopia nel 1935 [Santi, 2014].

Ancora nel 1992 il libro di Angelo Del Boca L’Africa nella coscienza degli italiani è stato centrale nell’avviare un certo tipo di riflessioni: il volume si apre infatti con alcune considerazioni su di un «immenso museo privato» che si troverebbe in Italia. Del Boca calcolava che una famiglia italiana su dieci possedesse nella propria casa un oggetto di provenienza coloniale, riportato da padri o nonni a seguito di un tempo speso in colonia, per lavoro o come militari: bracciali, pugnali, dipinti, talleri di Maria Teresa affollavano dunque le case di italiani più o meno ignari dell’origine di tali oggetti, andando però di fatto ad agire profondamente sulla loro coscienza. Si trattava del primo tentativo di riflessione di questo tipo da parte della storiografia del colonialismo italiano; un’analisi, probabilmente, maturata dalla pratica consolidata e incoraggiata dallo stesso Del Boca, per cui per anni erano i suoi stessi lettori a inviare allo storico cartoline, memorie, libri, fotografie, filmati personali o ereditati, affinché egli potesse studiarli.

Queste ultime considerazioni risultano particolarmente interessanti per impostare un percorso didattico, coinvolgendo gli studenti e invitandoli a scandagliare le memorie famigliari, i cassetti e gli album fotografici alla ricerca di tracce delle (ex) colonie, dai primi insediamenti di fine Ottocento sino alla cooperazione allo sviluppo condotta nella Somalia dell’AFIS e oltre. Ciò che emerge è la ‘quotidianità’ del colonialismo, con il suo portato di violenza e di razzismo, ma anche con la sua, apparente, ‘normalità’: nei nomi dei nonni ‘Adua’, ‘Derna’ o ‘Tosello’, inizialmente non riconosciuti come legati a quell’esperienza [Lenci, 2001], nelle cartoline esotiche ritraenti cammelli e oasi inviate dalla Libia e conservate come souvenir, negli oggetti curiosi acquistati al mercato di Addis Abeba negli anni Trenta da chi vi si era recato con l’esercito.

D’altra parte, in Italia molti musei ospitanti al loro intento collezioni coloniali hanno conservato l’allestimento, in parte o totalmente, dell’epoca: è il caso, ad esempio del Museo di Antropologia e Etnologia di Firenze o, nel caso di collezioni zoologiche, del Museo Eritreo Vittorio Bottego di Parma e dei Musei Civici di Reggio Emilia. Circa cento musei (di storia naturale, musei civici, musei di antropologia ed etnologia, musei dell’esercito, musei missionari, musei universitari...) ospitavano e ospitano ancora oggi collezioni provenienti dalle ex colonie italiane. E proprio attraverso tali musei, in un numero sorprendentemente consistente se si pensa alla breve storia coloniale del paese e alla dimensione relativamente piccola dell’impero, gli italiani entrarono in contatto con l’alterità umana e naturale delle colonie.

Questi musei e collezioni esposero e descrissero ciò che era ‘altro’ rispetto all’Italia, sovente esaltandone i tratti ‘primitivi’ nel caso degli abitanti delle colonie, appoggiandosi in questo al discorso scientifico dell’epoca [Falcucci, 2022b]. Essi, dunque, contribuirono a sorreggere le argomentazioni alla base di una ‘presunzione civilizzatrice’ che giustificava la bontà dell’intervento europeo, e nello specifico italiano, presso popolazioni geograficamente e culturalmente lontane dall’Europa, oltre che le infinite possibilità che quei territori ‘vergini’ offrivano per lo sfruttamento economico [Falcucci, 2020].

Oggi, tuttavia, questi musei e collezioni se corredati da pannelli esplicativi redatti con attenzione, didascalie aggiornate e se ben comunicati dal personale museale, possono offrire un prezioso strumento conoscitivo all’interno di programmi didattici. Essi infatti permettono di andare ‘alle radici’ delle pratiche coloniali e razziste, studiando come esse venivano implementate, messe in mostra e comunicate ai cittadini italiani, permettendo al visitatore di riconoscere il funzionamento storico di tali dispositivi e le loro eredità nel presente, e così facendo, scardinandole.

Proprio partendo da queste considerazioni si è ritenuto di impostare il modulo dedicato alle eredità materiali del colonialismo, e in particolare agli oggetti di vario tipo, conservati all’interno dei musei italiani. Al personale docente sono dunque stati illustrati strumenti utili e di facile accessibilità per presentare agli studenti il tema delle eredità materiali del colonialismo nelle città italiane, come per esempio le mappe dei progetti online Viva Zerai! e Postcolonial Italy. Tali progetti risultano infatti utili per “allenare” lo sguardo, invitando gli studenti a considerare elementi urbani e architettonici delle città italiane come vettori di significati legati (anche) alla stagione coloniale e al suo portato di violenza e razzismo. Tali elementi (nomi di strade, monumenti, busti, targhe commemorative) estremamente presenti nelle città italiane, del resto, risultano ‘nascosti in piena vista’ e sono di rado accompagnati da pannelli esplicativi che ne tracciano la storia e delineano la biografia dei personaggi che essi celebrano e ricordano. Ancora sfruttando risorse online come Project3541 e Memorie coloniali. Returning and sharing memories si è inoltre approcciato il tema delle memorie familiari, invitando i docenti a immaginare dei percorsi che possano coinvolgere direttamente gli studenti con attività legate allo ‘scavo’ nella memoria della famiglia, dei nonni e dei bisnonni, alla ricerca di fotografie, cartoline, oggetti, decorazioni militari di provenienza coloniale, oppure racconti e ricordi, che potrebbero essere analizzati e discussi in classe.

Poiché il corso si rivolgeva a dei docenti bolognesi si è ritenuto utile segnalare il lavoro di collettivi e attivisti che lavorano in città come Andrea Sestante, impegnato nel disegno e scrittura di una graphic novel dal titolo Yekatit 12 ispirata alla repressione della resistenza in Etiopia e al massacro di Addis Abeba del 1937, e Resistenze in Cirenaica, un collettivo (il cui nome si ispira al quartiere della Cirenaica di Bologna) impegnato in varie attività di public history e didattica (come i loro trekking urbani decoloniali), e in particolar modo di guerriglia odonomastica.

Infine, il modulo si è concentrato sulle collezioni coloniali nei musei italiani e sul loro portato di violenza e razzismo, contestualizzando la questione all’interno del più ampio panorama europeo e al dibattito in corso, illustrato poc’anzi, riguardo il patrimonio culturale. Per servire il duplice scopo di formazione dei docenti e di presentare un percorso che possa risultare accessibile anche per gli studenti e che i docenti possano loro riproporre, si è deciso di coinvolgere il Museo di Antropologia dell'Università degli Studi di Bologna. Attraverso la lezione introduttiva e la visita guidata della professoressa di Antropologia Maria Giovanna Belcastro, responsabile delle collezioni antropologiche dell’ateneo, gli insegnanti hanno potuto conoscere ed analizzare in prima persona le collezioni del museo, immaginando insieme alle formatrici come queste potrebbero essere inserite all’interno di un percorso di conoscenza rivolto agli studenti.

La presenza di crani, ossa e maschere facciali raccolte e realizzate durante il periodo coloniale all’interno delle collezioni del museo, infatti, ben si presta a impostare, in modo chiaro e tangibile, un discorso riguardo le classificazioni umane e le teorie razziali e razziste elaborate durante quella stagione, oltre che sul significato stesso di ‘scienza’ come un concetto in costante evoluzione. Allo stesso tempo, il museo pone sfide agli studiosi e ai cittadini di oggi, domande che possono essere rivolte agli studenti per stimolare la loro riflessione: è lecito ed ‘etico’ esporre questi reperti, e se sì, come farlo in modo da non replicare lo sguardo razzializzante e razzista di chi tali materiali produsse e raccolse?

Archeologia e razzismo: perché e come riflettere sulle “prove materiali” dell’appartenenza etnica nella scuola

Perché è necessaria una pedagogia del patrimonio archeologico nelle scuole e come è collegata con il tema del razzismo? Già vent’anni fa, Yannis Hamilakis [Hamilakis, 2004] ha mostrato come, anche in materia archeologica, la pedagogia non si limiti a essere un processo passivo di trasmissione, ma sia parte integrante del campo della politica culturale, un dominio contestato, uno spazio pubblico in cui conoscenze, opinioni e percezioni sul passato e sul presente vengono dibattute e contestate, valorizzate, riprodotte e legittimate. La teoria archeologica recente ha trascurato il campo della pedagogia che, di conseguenza, è stata in gran parte colonizzata dal ‘discorso strumentalista’ nella sua nuova reincarnazione orientata soprattutto a pratiche di marketing archeologico. In altre parole, quando si insegna e, più in generale, ci si approccia all’archeologia anche nei libri di testo (dei quali durante il percorso sono state analizzate delle parti), si trascurano i ‘lati oscuri’ che possono far seguito a certe strumentalizzazioni del patrimonio ancora in voga (per esempio l’idea che esista una discendenza lineare tra popoli del passato e gruppi umani attuali) a favore di narrazioni che proprio su queste ambiguità fanno leva per coinvolgere il pubblico.

Nell’ottica strumentalista, l’archeologia e le raccolte di reperti conservati nei musei vengono presentati al pubblico in termini oggettivati e (fintamente) neutrali. Si tratta, potremmo azzardare, di una sorta di riedizione del positivismo del dato culturale. Tuttavia, la storia della disciplina mostra come questo discorso sul patrimonio vada messo in discussione mostrando la contingenza, la storicità e la natura inevitabilmente transitoria e instabile della ‘verità’ in archeologia. Per far fronte a queste forme di autorappresentazione a fini promozionali della disciplina, oggi è necessario ideare percorsi didattici ed educativi che creino uno spazio per la riflessione critica, ricollegando soggettività ed esperienza alla conoscenza acquisita nel tempo e consentendo agli studenti non solo di comprendere i processi materiali e sociali che generano e riproducono la propria soggettività, ma anche di interrogare e persino trasformare questi processi e condizioni. Per fare questo è necessario partire proprio dalla storia della scienza archeologica, mostrando i limiti e i paradigmi interpretativi entro cui l’archeologia è nata e ha continuato ad alimentarsi, seppur con evidenti e importanti correzioni, fino ad oggi.

Il primo e più pervasivo di questi paradigmi è rappresentato dall’approccio nazionalista al patrimonio storico, un approccio che spesso sembra ineluttabile anche in termini di conservazione del patrimonio stesso [Díaz Andreu, Champion, 1996]. La premessa del terzo modulo del corso risiede, dunque, nella constatazione che il nazionalismo non ha influenzato solo le interpretazioni archeologiche di periodi specifici della storia tedesca o italiana o dell'archeologia coloniale. Al contrario, il nazionalismo è profondamente radicato nel concetto stesso di archeologia, nella sua istituzionalizzazione e nel suo sviluppo [Díaz Andreu, 2007]. Ciò non è un fenomeno storicamente o geograficamente isolato, relativo ad esempio solo a paesi come la Danimarca, dove l'archeologia si è sviluppata molto precocemente o agli spazi coloniali. Al contrario, può essere considerato un fenomeno generalizzato che ha influenzato ogni Paese del mondo, negli ultimi 200 anni, incluse le narrazioni e le politiche culturali dei paesi ex-coloniali dopo l’indipendenza. Esistono oggi, infatti, un ‘patrimonio archeologico italiano’, un ‘patrimonio archeologico francese’, (ma anche un patrimonio archeologico ‘bretone’, ‘lombardo’, ‘veneziano’ ecc.) e così via, e poco ha potuto fare la definizione di ‘World Heritage’ per cambiare questo stato di cose.

Un esempio di questo mai cessato tentativo di mantenere i musei come rappresentativi di un patrimonio intrinsecamente nazionale e nazionalista è dato dal progetto promosso circa vent’anni fa dal presidente francese Nicolas Sarkozy di costruire un nuovo museo della storia di Francia. L’intento era quello di ri-plasmare una narrazione storica francese che riverberasse grandezza e coesione nazionale, per abbracciare l'intero tessuto della storia francese inteso come un continuum unico. L'incarico, affidato a esperti come Jean-Pierre Rioux, richiamava esplicitamente l'intento di forgiare una nuova master narrative dal sapore nazionalista, facendo riemergere una concezione ottocentesca, ora veicolata attraverso oggetti e media multimediali, per ritrarre la Francia come una nazione in costante evoluzione e destinata alla grandezza. In tal modo il patrimonio esposto manteneva le caratteristiche tipiche di una heritage identitaria, cioè mirante a fondare un’identità nazionale forte, unitaria e monumentale, priva di riflessione critica e di pluralità di punti di vista secondo lo schema con cui vennero fondati i grandi musei nazionali nel XIX secolo [Porciani, 2010].

È dunque interessante partire proprio da una riflessione sulla costruzione degli stati in età contemporanea per capire quali dinamiche si celino dietro l’esposizione e la monumentalizzazione del passato archeologico. Il concetto di ‘nazione’, infatti, assume nel tempo e nello spazio diverse definizioni, riflettendo gli interessi specifici che hanno guidato gli archeologi in Europa e nel resto del mondo nel corso della storia della disciplina. Originato dalla Rivoluzione Francese, l’ideale di ‘nazione politica’ si basava sul diritto dei cittadini di esprimere le proprie istanze di partecipazione politica. Filosofi come Johann Gottfried Herder (1744-1803) hanno quindi contribuito a trasformarlo, sottolineando la convinzione che ogni nazione avesse un elemento unico e irrinunciabile, insieme culturale, linguistico, etnico e infine anche razziale.

Il legame storico tra nazionalismo e archeologia ha quindi radici profondissime e si basa sul concetto stesso di popolo-nazione. La nazione, fondamento del nazionalismo politico, è definita come l'unità naturale di un gruppo umano, e proprio in virtù di questa ‘naturalità’, a essa corrisponde il diritto intrinseco di costituire un'entità politica legata a un determinato territorio (i famosi ‘sangue e suolo’ di bantiana memoria [Banti, 2000]. In modo cruciale per quanto riguarda l’archeologia, la nazione si definisce, inoltre, come un gruppo omogeneo caratterizzato da un passato comune. Tale passato dovrebbe essere conosciuto e comunicato poiché costituisce una parte sostanziale della legittimità della nazione e delle sue aspirazioni a un riconoscimento politico. L'emergere del nazionalismo politico alla fine del XVIII secolo trasformò la produzione di questa storia da un processo letterario a un dovere patriottico. La storia acquisì un'importanza politica considerevole, con istituzioni statali organizzate per creare ed educare cittadini, legittimando l'esistenza dello stato attraverso l'identificazione con una nazione [Banti, 2000]. Questo circolo chiuso vedeva la nazione come base e obiettivo della ricerca archeologica in quanto solo questo tipo di ricerca poteva illustrarne adeguatamente le origini remote e, dunque, i caratteri autentici e le specificità. La scienza archeologica diveniva strumento di costruzione nazionale.

In questo senso, la storia delle interpretazioni archeologiche evidenzia molto bene la complessità del nazionalismo e del concetto di nazione. Ad esempio, a partire dal XIX secolo, sulla spinta degli studi sull’indoeuropeo, gli archeologi hanno enfatizzato la componente etnica e linguistica del passato degli stati europei, allora nel pieno del nation building. Dal tardo XIX secolo, gli elementi di nazione, razza e lingua sono stati intrecciati attraverso l'identificazione dei reperti archeologici con la ‘razza’ originaria indoeuropea, utilizzata in seguito anche per giustificare la superiorità della nazione tedesca e la sua natura ‘ariana’. In Russia e Polonia, si è sottolineata invece l'origine slava, mentre in Lituania si è enfatizzata l'origine baltica. A queste teorizzazioni venne assai rapidamente fatto corrispondere un carattere di razza prima su base etnico-culturale e poi biologica (la razza ariana, la razza slava e la razza baltica). In Spagna, invece, il traino delle interpretazioni archeologiche è stato l'elemento religioso del nazionalismo ottocentesco, portando a escludere i musulmani, che pure occuparono la Penisola Iberica per sette secoli, dal retaggio culturale e biologico ‘autenticamente spagnolo’ [Díaz Andreu, Champion, 1996].

Dal XIX secolo, crebbe enormemente la percezione pubblica della civilizzazione delle varie aree del globo come risultato distintivo dell’apporto di certe razze. Al contempo, tra gli scienziati occidentali si accumulavano dati basati su misurazioni craniche, colore della pelle, tipo di capelli e forma generale del corpo. Si cercava di collegare cambiamenti politici ed economici al tipo fisico, alimentando ad es. dibattiti sulla differenziazione tra popolazioni anglosassoni e romane in Gran Bretagna. Questi dibattiti coinvolgevano tanto gli anatomisti e gli antropologi fisici quanto, in particolare, gli archeologi preistorici, i quali non si sottrassero a costruire pezzo dopo pezzo elementi della ‘cultura materiale’ e del ‘carattere’ delle diverse nazioni. L'analisi fisica dei resti umani veniva inoltre vista come chiave per comprendere lo sviluppo delle popolazioni. Il ricorso al paradigma della razza permeava inoltre non solo l'autocomprensione, ma anche la creazione di stereotipi per gli ‘Altri’, tanto nelle colonie, quanto tra nazioni europee [Fehr, 2010].

Il problema del razzismo in archeologia si manifesta dunque storicamente attraverso la tendenza a interpretare i reperti archeologici in termini di speculazioni sui presunti profili razziali delle popolazioni che hanno creato le strutture architettoniche, i reperti di cultura materiale e sono inumati nelle sepolture portate alla luce dagli scavi [Gosden, 2006]. Una precoce lettura razziale dei reperti archeologici può essere fatta risalire persino a Josiah Priest (1788-1861) e al suo libro del 1833 American Antiquities. Nel suo ampio volume, Priest mise il rapporto la storia biblica con i giornali antiquari dell’epoca e con informazioni raccolte durante i suoi viaggi, giungendo alla conclusione che i terrapieni osservati da lui stesso in Ohio dovessero essere ricondotti a una razza perduta che aveva abitato l'America ancor prima dell'arrivo dei nativi americani [Timmerman, 2020]. Questa teoria, nota come ‘mito dei costruttori di tumuli’, si diffuse ampiamente [Colavito, 2020, pp. 70-72], supportata dalla visione di Priest sui nativi americani, descritti come una razza di sanguinari selvaggi colpevoli della distruzione di popoli e culture.

Con il progredire delle scienze, il rapporto tra razzismo e archeologia si fece ovviamente più stretto. Flinders Petrie (1853-1942), in contatto con scienziati come Francis Galton (1822-1911) e Karl Pearson (1857-1936) [Sheppard, 2010], attribuiva la cultura dell'Antico Egitto a una antica razza invasiva, e dopo di lui quasi ogni archeologo di interrogò sul rapporto tra razza e cultura. Il culmine di questa influenza reciproca è chiaramente evidente con l’opera di Gustaf Kossinna (1858-1931). L’archeologo tedesco associò l'archeologia a un'ideologia che divenne, nel tempo, quella nazista: l’idea della superiorità culturale e biologica degli ariani. La sua visione di un'Europa preistorica ariana ebbe un impatto enorme sugli archeologi, che durò, in varie forme, anche dopo la Seconda guerra mondiale [Díaz Andreu, 2007, p. 397].

Un'analisi critica di queste influenze storiche è essenziale per promuovere un approccio più inclusivo nell'archeologia contemporanea e, al contempo, favorire un'approfondita e diffusa consapevolezza critica verso le collezioni conservate ancora oggi nei nostri musei. Esse vennero allestite inizialmente nel corso del XIX secolo secondo logiche comparative che avrebbero dovuto rendere auto-evidenti i legami e le separazioni culturali e biologiche (cioè etnico-razziali) tra le popolazioni antiche. Vigeva infatti l’identificazione tra razza e produzione tipologica di cultura materiale. Questo sistema aveva un potere incredibile sul piano epistemologico e comunicativo poiché lasciava al visitatore l’opportunità di inferire personalmente i paralleli e le differenze istituiti tramite l’allestimento museale. Anche al di là della riflessione sul razzismo e la sua storia, sul piano pedagogico, decostruire il ruolo di queste pratiche epistemologiche è un modo per capire come anche la materialità stessa e l’attribuzione ‘etnica’ di ogni oggetto materiale sia una tendenza che mette in atto dinamiche di inclusione/esclusione del tutto analoghe da altre forme di costruzione sociale veicolate dagli oggetti [Aime, 2020]; [Fabietti, 2013]. Come è emerso dalla discussione con le docenti in formazione, rientrano in questa categoria oggi, ad esempio, tanto l’appartenenza alla tifoseria di una squadra di calcio veicolata dai colori di sciarpe e magliette, quanto le spillette elettorali fieramente indossate durante le campagne elettorali negli Stati Uniti e i costumi tradizionali utilizzati nelle feste regionali.

L’utilizzo di oggetti per rivendicare identità e appartenenza è, dunque, un fenomeno comunemente umano. Tuttavia, quando esso viene associato a storia, appartenenza nazionale o etnica e, come la storia ci ha mostrato, anche alla biologia e al concetto di ‘naturalità’ di un gruppo, diventa uno strumento ideologico estremamente potente nel costruire o immaginare realtà, come avvenuto nel caso delle nazioni nel XIX secolo (in Europa e Nord America) e nel XX secolo (nelle ex colonie) [Díaz Andreu, 2007]. Riflettere su queste dinamiche per gli insegnanti e gli studenti delle scuole rappresenta per prima cosa, dunque, un modo per veicolare uno sguardo critico e partecipato alla lettura delle collezioni museali archeologiche (ed etnografiche). Nel progetto che abbiamo sviluppato è stato aperto un brainstorming con le docenti su questa modalità di immaginare le comunità e sul ruolo della ‘fonte archeologica’ nel sostenere identità contrapposte. In tal modo le docenti hanno potuto anche allargare il discorso alle possibili forzature interpretative che derivano dall’essere immersi in un particolare contesto storico e alla non neutralità della fonte storica e del dato scientifico.

La formazione, in ogni grado di istruzione, che integri questo approccio critico all’archeologia, secondo quanto sostiene anche Hamilakis (2004), diventa dunque una vera educazione sulle competenze di pensiero critico e di cittadinanza. In relazione al razzismo, questo approccio alla storia dell’archeologia permette di riflettere (e meta-riflettere) efficacemente sulle dinamiche di esclusione/inclusione attraverso la lente degli oggetti e sul rapporto cultura/identità/natura mostrando come tutti questi concetti siano in realtà costruzioni spesso ‘guidate’ da letture quantomeno parziali della realtà. Sul piano della cittadinanza permette di discutere la sola nazionalità di ‘sangue’, permettendo di ragionare sull’integrazione culturale e sul significato di multiculturalismo nel passato e nel presente. Integrare queste conoscenze permette inoltre di inserire attività laboratoriali sulle competenze appena citate all’interno del programma scolastico della scuola secondaria di primo e secondo grado in modo relativamente agevole, magari supportando visite ai musei o inserendo direttamente le attività nell’ambito degli insegnamenti di storia, biologia e arte in aula.

Conclusioni. Percorsi concreti per una scuola antirazzista

Il cosiddetto material turn ha avuto ampio impatto anche sugli studi di storia della scienza legati all’indagine del patrimonio culturale, degli oggetti e della materialità della conoscenza [Bennett, Joyce, 2010]. Questo approccio risulta particolarmente efficace per mettere in evidenza il ruolo cruciale delle tracce materiali, mediali e visive nella definizione e diffusione di concetti complessi come quelli legati alla costruzione dell’idea di razza, sottolineando, inoltre, l'interconnessione tra pratica scientifica e istituzioni, come nel caso del legame tra progetto coloniale, spazi museali e istituti accademici nei secoli XIX e XX.

Nonostante la crescente consapevolezza dell’interesse e dell’importanza anche formativa di questo approccio, nella scuola italiana tale metodologia rimane in gran parte trascurata, sebbene sempre più i docenti provino a trovare modalità nuove per integrarla nella didattica in aula. Per rispondere a questa esigenza, il percorso formativo qui delineato si propone di fornire strumenti per contestualizzare temi cruciali come il razzismo e il colonialismo attraverso l'analisi di oggetti concreti, come le collezioni fotografiche, museali e librarie, o le tracce del colonialismo nello spazio pubblico. Il presente saggio, infatti, non si è limitato a descrivere il percorso formativo svolto nel corso dell'anno scolastico 2022-2023, ma ha ricostruito anche il framework metodologico da cui esso è nato (paragrafi 2, 3, 4), ripercorrendo i concetti chiave emersi dalla ricerca scientifica degli ultimi due decenni, che sono stati discussi con i docenti stessi durante i tre moduli. Tale approccio offre ai docenti un materiale organizzato in modo critico e problematizzato, che può fungere da stimolo per la riflessione e l'innovazione didattica nei prossimi anni.

Attraverso le lezioni e le attività proposte durante il corso di formazione SISS, i partecipanti hanno acquisito strumenti per reinterpretare i programmi e i materiali scolastici ‘tradizionali’, nonché per sviluppare attività laboratoriali in classe e al di fuori di essa. Queste attività incoraggiano docenti e studenti a esercitare un pensiero critico sulle fonti visuali, materiali e sul patrimonio culturale promuovendo il lavoro di gruppo, l'autoapprendimento e la discussione su tematiche complesse. Tuttavia, esse assumono un significato pieno solo all’interno di un quadro di riflessione critica su concetti quali identità, saperi e conoscenza, ai quali la riflessione si è allargata. Per questo motivo, il presente saggio ha ripercorso e riletto alcuni passaggi chiave della storiografia recente proponendo una riflessione originale che passa dalla public history of science (ovvero dall’impegno pubblico dello storico della scienza nell’affrontare temi civili come nazionalismo, razzismo, colonialismo) alla sua declinazione nell’ambiente scolastico italiano.

Con riferimento al progetto di formazione effettivamente svolto va aggiunto che, al termine del percorso, gli insegnanti hanno presentato ipotesi di attività finalizzate alla creazione di Unità Didattiche di Apprendimento, che privilegiano momenti di scambio, discussione e laboratorio rispetto alle tradizionali lezioni frontali. In questi percorsi elaborati dai docenti è stata privilegiata l’interdisciplinarità tra saperi, per esempio proponendo di integrare una lezione di storia o di lingua straniera con informazioni sui cambiamenti della cultura gastronomica in relazione ai processi di incontro e scontro coloniale. Altre ipotesi prevedevano l’utilizzo privilegiato di fonti visuali, da quelle più antiche a quelle contemporanee, per esaminare gli stereotipi culturali legati alla rappresentazione di diversi paesi e popolazioni; altre ancora mettevano al centro le visite agli spazi museali per analizzare le forme di codificazione e catalogazione etnica e razziale insita nei processi espositivi occidentali. Attraverso questo lavoro di riflessione e progettazione condivisa e autonoma da parte dei docenti è emerso come percorsi di questo tipo possano aiutare tanto il lavoro collaborativo e trasversale tra docenti, quanto l’assunzione di prospettive più affini alla ricerca attuale, garantendo un effettivo aggiornamento tanto delle pratiche educative quanto dei contenuti, e favorendo l’ingresso della storia della scienza nella scuola come strumento di innovazione didattica.

Coerentemente con quanto appena affermato, infatti, i questionari di valutazione hanno evidenziato la necessità di replicare esperienze formative di questo tipo, confermando in particolare l'importanza delle attività esterne e laboratoriali. Le docenti partecipanti hanno comunicato l’interesse crescente a seguito del percorso per la storia della scienza come disciplina attraverso cui guardare a problemi complessi, sia sul piano dei contenuti che delle metodologie proposte. Sebbene la maggior parte delle partecipanti fossero insegnanti di italiano, storia e geografia, è stato sottolineato come questo percorso sia adatto a creare ponti tra diverse discipline e a incoraggiare percorsi in collaborazione tra diverse materie. Oltre alle visite, è stata data molta importanza allo scambio attivo di idee e conoscenze e al lavoro in piccoli gruppi, attraverso cui sviluppare nuovi spunti per le lezioni e alla possibilità di problematizzare il patrimonio culturale e scientifico in termini critici. Sul piano pratico ed operativo, gli incontri in presenza e le visite didattiche sono state particolarmente apprezzate e la possibilità di sviluppare percorsi formativi simili assieme a insegnanti di diversi ordini scolastici non è stata valutata negativamente, mentre è stata richiesta la possibilità di accorciare il numero di ore totali del modulo in modo da permettere la fruizione del corso per intero da parte di tutti i partecipanti.

Dunque, dalla presente analisi emerge come, in un contesto scolastico caratterizzato da classi sempre più multiculturali, diventi oggi essenziale ridefinire l'insegnamento di fenomeni complessi come la storia del razzismo, del colonialismo, del nazionalismo e i pregiudizi e le pratiche discriminatorie ad essi associati. Per farlo si propone il ricorso alla storia della scienza, dei saperi e delle conoscenze come piattaforma concettuale transdisciplinare attraverso la quale mettere in campo e discutere queste tematiche nelle loro diverse sfaccettature.

L'esperienza di formazione discussa in questo saggio dimostra inoltre in modo chiaro come l'integrazione tra ricerca scientifica, istruzione e studi sul patrimonio possa offrire molteplici opportunità per decostruire le strutture di sapere colonialiste e razziste ancora purtroppo presenti nello spazio e nel dibattito pubblico e talvolta, in forme ‘silenziose’, anche nella scuola, favorendo nuove forme di didattica che promuovono il confronto e l'apprendimento reciproco, aprendo la strada a una visione più inclusiva e consapevole della storia e della società italiana.