Enrico Giusti (1940-2024)
Università di Pisa pier.daniele.napolitani@unipi.it
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Emicuit tamen inter tenebras (quamvis alii quoque nonnulli fuerint praeclarissimi)/Solis instar Henricus noster, qui multis doctissimis elucubrationibus/amissum historicum matheseos patrimonium non modo restauravit,/vero etiam auctius et lucupletius effecit./Et ecce repente Henricus ad otia pergit et amicos ita costernatos relinquit/ut eius desiderium vix hodierno συμποσίῳ mitigari possit./Mane nobiscum, Henrice! Tuo consilio et studio noli nos orbare.
Testo del biglietto di auguri per il 70° compleanno di Enrico Giusti, festeggiato a Pisa alla Domus Galilaeana il 4 ottobre 2010.
Enrico Giusti è morto lo scorso 26 marzo 2024, a quasi 84 anni. L’avevo conosciuto nel novembre del 1978 – una vita. E così con lui un bel pezzo della mia vita se ne è andato via.
Ci saranno certo altre occasioni per ricordarlo come matematico e come storico della scienza, campi in cui Enrico ha lasciato un’impronta, e un’impronta importante. Quello che posso fare io qui è cercare di riannodare i fili della memoria di un quarantennio di consuetudine e amicizia.
Come conobbi Enrico
In un pomeriggio del novembre del 1978 – avevo un assegno di ricerca ma stavo allora “servendo la patria” al Distretto militare di Pisa – trovai il tempo di passare dall’Istituto di matematica. Laureato da poco, e molto ignorante, qualcuno mi disse che Giusti (Ma come? non sai chi è? Ha fatto lavori importantissimi sulle superfici minime, con De Giorgi e Bombieri! Si è trasferito qui a Pisa da Trento, insegna analisi a Scienze dell’informazione) stava tenendo un seminario sulla Storia della matematica. Fin dalla laurea ero affascinato dall’argomento (più ancora che dalla ricerca in matematica pura), così decisi di entrare a sentire, nonostante il seminario fosse quasi terminato. Di quello che ascoltai ricordo tre cose: che un gruppo di matematici voleva rilanciare la ricerca storica; che Enrico stava lavorando a un’interpretazione della geometria di Bonaventura Cavalieri; e che c’erano due campi in cui lui pensava si potesse lavorare con profitto: la matematica dell’Ottocento (che richiedeva la conoscenza del francese e del tedesco) e quella del Seicento per cui occorreva sapere il latino e in francese. E invitava a farsi avanti.
Non persi tempo. Mi erano piaciuti tantissimo i suoi modi, mi entusiasmava l’idea di poter lavorare in un campo che mi attraeva. Mi presentai nel suo studio e gli dissi che il Seicento era fatto per me. Ero – come si sarà capito – un giovane sprovveduto e un po’ incosciente: sì, un po’ di latino lo sapevo e conoscevo il francese: ma avevo conoscenze storiche da liceale e ancor meno sulla storia della scienza e quasi nulla sulla matematica del diciassettesimo secolo. Ma l’incontro fra uno dei matematici più in vista del momento e un giovincello ignorante funzionò piuttosto bene: Enrico mi accolse.
Forse perché in quei miei limiti vedeva le sfide che il suo progetto gli metteva davanti? Lui, matematico di fama internazionale, si stava addentrando in un’avventura nuova ed era ben consapevole di cosa avrebbe dovuto affrontare. La sua ambizione era di rinnovare il modo stantio e provinciale con cui si faceva storia della matematica, specialmente in Italia. E questo significava rompere con tradizioni interpretative consolidate ed interagire con mondi – in particolare quello degli storici della scienza – molto lontani da quello in cui lui aveva ottenuto risultati e successo.
Il suo primo lavoro di storia, Bonaventura Cavalieri and the Theory of Indivisibles, rispecchia pienamente queste prospettive. Con un approccio nuovo venivano obliterate le interpretazioni tradizionali della geometria degli indivisibili che tendevano a fare di Cavalieri un “precursore” del calcolo integrale, se non addirittura della teoria degli insiemi. Giusti interpretava gli indivisibili di Cavalieri come una grandezza geometrica, soggetta ai vincoli rigidi della teoria delle proporzioni euclidea e riusciva così a spiegarne non solo il successo come strumento euristico e dimostrativo, ma anche il fallimento teorico. Al di là dell’interpretazione, Enrico si era affaticato anche a ricostruire puntigliosamente la vita e le vicende di Cavalieri. Ricordo quando un giorno – il lavoro era già stato pubblicato – mi disse con orgoglio: “Sono riuscito a individuare dove si trovasse il convento dei Gesuati in cui viveva Cavalieri qui a Pisa!”
Ricerca storica e interpretazione del testo: due aspetti che possono sembrare ovvi. Tuttavia, alla fine degli anni Settanta non era affatto così: la maggior parte dei lavori di storia della matematica erano dedicati a individuare eventuali risultati della matematica contemporanea precorsi o adombrati dall’autore del passato di volta in volta studiato, dall’Antichità greca al Settecento. La ricerca d’archivio veniva spesso trascurata e il lavoro di ricostruzione dei testi ignorato o condotto con criteri che avrebbero fatto rabbrividire qualsiasi filologo.
Nei due anni in cui ci frequentammo a Pisa – Enrico si sarebbe trasferito a Firenze nell’autunno del 1980 – questo tipo di problemi era uno dei temi principali delle nostre conversazioni. Mi aveva consigliato di occuparmi di Luca Valerio, un matematico poco conosciuto della seconda metà del Cinquecento. Io ero entusiasta di questo nuovo mondo di ricerche e delle prospettive di studio che mi si aprivano. E una delle cose che più mi piacevano era la libertà che Giusti mi lasciava e la considerazione in cui mi teneva. Quando gli consegnai il mio Valerio uno dei due referee cui l’aveva sottoposto ne aveva dato un giudizio piuttosto negativo: troppo lungo, troppi dettagli storici. Enrico mi fece capire che non era un consiglio da seguire: che rivedessi l’articolo, che tenessi pur conto delle critiche, ma assolutamente non era né da scorciare, né tanto meno da buttare via.
In quegli anni, e in tutti quelli a venire, non mi ha mai fatto sentire l’allievo o il collaboratore: sempre un suo pari. Credo che questa sia la caratteristica più importante di un vero Maestro.
Il Bollettino di storia delle scienze matematiche
Non che Enrico fosse un tipo facile. Cominciai a conoscerlo meglio da questo punto di vista dopo il 1982, quando cominciai a collaborare come segretario di redazione al Bollettino di storia delle scienze matematiche, fondato da Giusti nel 1981 insieme con Luigi Pepe, Tullio Viola e Clifford Truesdell – grazie anche al sostegno dell’Unione Matematica Italiana. L’avrebbe diretto fino al 2022.
Il Bollettino diventò rapidamente un punto di riferimento per gli storici della matematica italiani, sebbene non senza attriti e polemiche. Tanto più che Enrico non andava per il sottile: specie nei primi anni si trattava di affermare e consolidare un nuovo modo di fare storia della matematica. Questo suo programma però si doveva confrontare con quella che era la situazione italiana in cui si erano andati consolidando gruppi di ricerca e singoli studiosi: il gruppo di Tullio Viola a Torino, a Siena il Centro Studi della Matematica Medievale diretto da Laura Toti Rigatelli e Raffaella Franci, Luigi Pepe e i suoi a Ferrara, Umberto Bottazzini a Bologna, Silvio Maracchia, e la scuola di Lucio Lombardo Radice e Giorgio Israel a Roma, Antonio Garibaldi a Genova, Massimo Galuzzi e Angelo Guerraggio a Milano; Pietro Nastasi e Aldo Brigaglia a Palermo ... e sicuramente dimentico qualcuno.
Non mancavano così malcontenti e dissapori, in particolare quando Enrico promosse due importanti convegni: nel 1982 a Cagliari e nel 1983 a Cortona. Specie quello di Cagliari fu un convegno cui partecipò la maggior parte dei ricercatori interessati alla storia della matematica: fu la premessa per la nascita di una nuova comunità di studiosi, indirizzata verso una rigorosa analisi storica, filologica e matematica delle fonti e l’abbandono di approcci incentrati sui precursori o meramente celebrativi.
Ars analytica
Nel settembre del 1983, a Perugia, Giusti tenne la conferenza inaugurale del XII congresso dell’Unione Matematica Italiana. Il tema era la nascita del calcolo infinitesimale: A tre secoli dal calcolo: la questione delle origini. Enrico parlava in una sala strapiena, esponendo una tesi fortemente innovativa: il calcolo differenziale di Leibniz nasce per inventare un calcolo efficace per risolvere il problema di determinare le tangenti a una curva algebrica.
Fu un momento importante: la storia della matematica si presentava ai matematici in vesti nuove – e autorevoli. Ricordo, di quel convegno, una mia discussione con Tullio Viola che sosteneva che Enrico avesse sprecato un’occasione: di fronte a quella sorta di “Stati Generali” avrebbe dovuto tenere un discorso molto più aulico sull’importanza della storia. E io gli ribattevo che invece aveva aperto delle prospettive nuove su come farla, la storia.
A Perugia mi rividi con Aldo Brigaglia e Pietro Nastasi di Palermo: dopo Cagliari e Cortona eravamo rimasti in contatto e c’era venuta l’idea di organizzare degli incontri di studio su Marino Ghetaldi, un matematico dell’inizio del Seicento, fra i primi a cogliere l’importanza delle innovazioni che François Viète aveva apportato all’algebra. Fu nelle discussioni a margine della sezione del congresso dedicata alla storia che, insieme, coinvolgemmo Enrico nell’organizzazione di questo progetto. Giusti accolse l’idea con entusiasmo: si trattava di organizzare un gruppo di lavoro e le sedute del seminario sarebbero state dedicate ciascuna all’analisi di uno o due testi di questo matematico. I partecipanti si dovevano impegnare a studiare i testi che sarebbero stati presentati da un relatore. Non ci sarebbero stati limiti di tempo per le presentazioni e la discussione.
La prima sessione del seminario La figura e l’opera di Marino Ghetaldi si tenne a Pisa all’inizio del 1984 – se non ricordo male. Ne sarebbero seguite molte altre e da Ghetaldi saremmo passati a esaminare l’opera di Viète e poi quella di Descartes. In quegli incontri, che durarono fino al 1986, si andò formando, sotto la guida di Enrico, un gruppo di storici che condivideva metodologia e obiettivi di ricerca. Basta scorrere gli indici del Bollettino di quegli anni e di quelli successivi per averne un’idea.
Questi seminari erano piuttosto informali: ci si interrompeva, ci si criticava. E spesso la discussione si surriscaldava. Anche perché, come ho detto, Enrico era un tipo tutt’altro che facile: se gli sembrava che qualcuno stesse menando il can per l’aia o stesse divagando a causa di una comprensione errata, non si faceva problemi a interromperlo e a fargli notare che quello che stava dicendo non si reggeva in piedi. Non mancava chi se la prendeva a male.
Fra gli altri, anch’io. Alla fine del primo seminario “Ghetaldi” nacque una discussione su come si dovesse andare avanti. Io sostenevo una cosa, Enrico un’altra e a un certo punto lui mi disse qualcosa come “Daniele, stai buono”. “Tu, stai buono, a me non me lo dici!”, sbottai; mi saltarono i nervi e uscii dall’aula sbattendo la porta e me ne andai anche dal Dipartimento. Dopo un’ora, sbollitami la rabbia, tornai rimuginando sulla fine della mia carriera di storico, senza saper bene cosa avrei fatto. Proprio mentre stavo entrando nell’atrio del dipartimento, Enrico e gli altri stavano uscendo dall’aula per una pausa: Enrico mi vide e mi venne incontro stringendomi la mano con un gran sorriso. Dubito che molti altri avrebbero fatto lo stesso.
Alla fine di settembre del 1987, al colloquio Ars analytica che si tenne al Centre International de Rencontres Mathématiques di Luminy (Marsiglia) ci confrontammo con i nostri colleghi francesi. Sarà che le souvenir c’est embellisseur, ma ho il netto ricordo dell’orgoglio per come la nostra “scuola” si presentasse con una tesi e un programma chiari: le linee di ricerca che Giusti aveva cominciato a delineare nella sua conferenza di Perugia del 1983 avevano preso corpo e stavano aprendo nuovi orizzonti. Per quanto riguarda i contributi specifici di Enrico, il suo articolo La Géométrie di Descartes tra numeri e grandezze resta a mio avviso un punto fermo, frutto delle tante discussioni sui rapporti fra algebra, geometria, geometrizzazione della realtà che si erano tenute in quegli anni.
Tuttavia, proprio quando sembrava si fosse costituita una scuola storico-matematica italiana, con legami e relazioni internazionali, i dissapori cui accennavo cominciarono a trasformarsi in dissensi e insofferenza nei confronti della direzione di Giusti. È forse allora che iniziò una parabola discendente per la nostra comunità: molti presero la loro strada e si andò perdendo il senso di appartenere a una comunità unita, al di là delle differenze di opinioni e di interessi.
All’alba della matematica moderna
Non che Enrico non avvertisse che le cose non andavano più tanto bene. In una conversazione di qualche anno dopo – doveva essere la primavera o l’estate del 1993 – Giusti mi confidava il bisogno di rilanciare quel tipo di esperienza. “Cosa potremmo fare?” mi chiese. “Si potrebbe affrontare Maurolico”, risposi dubbioso. In effetti l’idea di affrontare l’opera di questo matematico del Cinquecento (circa 5000 pagine, fra stampe antiche e manoscritti molti dei quali ancora inediti) si era già affacciata più volte negli anni precedenti, ma per vari motivi non era mai decollata. In particolare, se ne era parlato di tanto in tanto dopo la pubblicazione dello studio di Rosario Moscheo del 1988 su Maurolico, che includeva un catalogo dettagliato dei suoi scritti e poteva fungere da punto di partenza. Il progetto, quindi, non era così folle come poteva sembrare, ma presentava comunque una sfida significativa. Alle mie perplessità, Enrico rispose: “Che importa? Proviamoci lo stesso!”
Fu così che nacque il seminario All’alba della matematica moderna: Francesco Maurolico e il ritorno dei classici (Pisa, 1993-96) da cui si sarebbe sviluppato il Progetto Maurolico (1998-2009). Al seminario e al progetto parteciparono e collaborarono una cinquantina di ricercatori delle più varie estrazioni: giovani laureandi, filologi di fama come Ottavio Besomi, storici della scienza come Carlo Maccagni, e molti storici italiani della matematica, oltre a diversi studiosi internazionali, come Ken Saito, Ken’ichi Takahashi, Bernard Vitrac, Jean Cassinet, Jean-Pierre Sutto e altri. Nell’arco di una decina d’anni riuscimmo a esplorare quel mare magnum di testi, a realizzarne una trascrizione digitale completa e infine a proporre – e a ottenere – che venisse costituita l’Edizione nazionale dell’Opera Matematica di Francesco Maurolico, strutturata in dodici volumi.
Sono venticinque anni che questa impresa va avanti. E se ce l’ha fatta finora, il merito va in gran parte a Enrico. Non tanto e non solo per i contributi pubblicati, pur rilevanti. Ma soprattutto per la sua partecipazione costante – non ricordo un solo seminario o una sola riunione mauroliciana in cui lui sia stato assente – e sempre attiva, intelligente. E, più prosaicamente, per il suo sostegno: Giusti fece del Progetto uno degli assi portanti dei vari PRIN “Storia delle matematiche” finanziati fra il 1997 e il 2004 di cui lui fu il principal investigator.
L’ultima volta che ho visto Enrico (anche se solo online: la malattia che ce l’ha portato via lo costringeva a un’estrema prudenza) è stato nel febbraio scorso, proprio per una riunione della Commissione scientifica dell’Edizione Nazionale. Mi è quasi impossibile immaginare che, quando ci riuniremo la prossima volta, lui non ci sarà.
De motu antiquiora
Enrico mi mancherà molto. Così come mi è mancato – e ancora oggi, dopo più di vent’anni, mi manca – Pierre Souffrin. Pierre aveva fatto sporadiche apparizioni ai seminari “Ghetaldi” e “Maurolico” ed era divenuto molto amico sia di Enrico, sia mio. Come Enrico, Pierre era fisico di formazione e i suoi interessi erano concentrati sulla meccanica “pre-classica,” in particolare sulla meccanica galileiana. Giusti aveva esplorato a lungo temi simili. Già dagli anni Ottanta si era occupato di cinematica galileiana; aveva curato un’edizione dei Discorsi e nel 1993 aveva pubblicato un’importante monografia sulle sfide che Galileo aveva dovuto affrontare cercando di creare una nuova fisica nel quadro teorico della teoria delle proporzioni euclidea. Questo portò allo sviluppo di un’amicizia scientifica profonda, sebbene Pierre ed Enrico non fossero sempre d’accordo. Ricordo infatti discussioni piuttosto vivaci tra loro, in particolare sul concetto di velocità e sull’uso che Galileo ne faceva, così come sulla teoria galileiana delle maree.
Pierre lavorava all’Observatoire de la Côte d’Azur a Nizza e insieme organizzammo una serie di atelier per studiare alcuni scritti giovanili di Galileo, noti come de motu antiquiora. Lo stile di questi incontri era quello che ho descritto qui sopra: un relatore senza limiti di tempo e discussione libera. Giusti fu uno dei protagonisti dei quattro o cinque incontri che si fecero fra il 1993 e il 1997, a Nizza e Pisa. Enrico era particolarmente entusiasta degli incontri nizzardi; Pierre li organizzava all’hotel Westminster, sulla Promenade des Anglais, e le discussioni del seminario si prolungavano piacevolmente in divagazioni sui temi più svariati, à la terrasse del Westminster, in una cornice eccezionale.
Uno dei problemi che riguardava questi testi, pervenutici in autografo, era quello della loro cronologia. Per semplificare, si tratta di tre testi (T10, T23 e D), tutti incompiuti. Non era chiaro né quando fossero stati composti (nel periodo pisano di Galileo? in quello padovano?) né quale dovesse essere la loro cronologia relativa. In letteratura era stato proposto di tutto e in particolare dei sei ordinamenti teoricamente possibili ne erano stati proposti ben quattro, utilizzando le idee e i metodi più stravaganti...
Ricordo il sarcasmo di Enrico a riguardo di questa e altre piacevolezze relative agli studi galileiani. Buttò giù un pamphlet, Il metodo Caverni, in cui si suggeriva a un giovane che stesse muovendo i primi passi in storia della scienza di scegliere le tesi più assurde, che sarebbero certo risultate assolutamente originali: questo gli avrebbe garantito una brillante carriera. Purtroppo non lo volle mai pubblicare e chissà dove è andato a finire. Ma, sarcasmo a parte, Enrico decise di prendere di petto la questione. Presi in mano i manoscritti, ne allestì una nuova edizione che desse conto di tutti i vari interventi di Galileo (correzioni, aggiunte marginali, cancellature, riferimenti intertestuali). Presentò i risultati del suo studio su questi interventi ad Ascona, al convegno Testi e contesti galileiani (28 ottobre – 2 novembre 1996), promosso dalla Cattedra di Letteratura italiana del Politecnico federale di Zurigo, dall’Istituto e Museo di Storia della scienza di Firenze e dal Max Planck Institut für Wissenschaftsgeschichte di Berlino: la cronologia relativa senz’ombra di dubbio era D, T23, T10. Una querelle che durava dall’inizio del secolo aveva trovato una conclusione definitiva.
Critica testuale
Giusti pubblicò i risultati del suo lavoro su Nuncius nel 1988; la sua edizione dei De motu antiquiora, invece, non è mai stata pubblicata. Fu un vero peccato, perché rappresentò un momento importante dell’evoluzione dei suoi interessi verso il rapporto fra storia della matematica e filologia.
Fin dai suoi primi lavori, Enrico si era posto questo problema. Ricordo che già alla fine dell’estate del 1980 organizzò all’Istituto di matematica di Firenze un incontro (fra gli altri c’erano, se non mi sbaglio, Paolo Galluzzi, Maurizio Torrini, Gino Arrighi, Laura Toti Rigatelli e Raffaella Franci, Paola Gario) sulle edizioni dei carteggi. Non lesinò gli sforzi perché riuscisse a vedere la luce l’edizione del carteggio di Cristoph Clavius. Nel 1985, insieme con Luigi Pepe, organizzò al CIRM di Trento il convegno “Edizioni critiche e storia della matematica”.
Come ho accennato, nel 1990 aveva pubblicato per Einaudi un’edizione dei Discorsi di Galileo. Ricordo le discussioni avute con lui a proposito di questo lavoro. C’era da confrontarsi, ovviamente, con l’edizione nazionale di Antonio Favaro e con quella molto più recente curata da Adriano Carugo e Ludovico Geymonat. Quando per la prima volta mi disse che stava lavorando a questo compito, rimasi sbalordito:
“Ma dovrai scrivere un’infinità di note a piè di pagina!” – osservai sorpreso, pensando all’edizione di Carugo e Geymonat, pesantemente annotata.
“Penso proprio di no,” rispose. “Ho intenzione di scrivere un’introduzione dettagliata sulla cinematica galileiana e di limitarmi a note puramente testuali.”
Enrico sosteneva spesso che sovraccaricare un’edizione con commenti e riflessioni dell’editore la rende obsoleta prematuramente. Citava esempi come la corrispondenza di Marin Mersenne o l’edizione delle opere di Descartes. Qualsiasi svista – o peggio, errore – commesso dall’editore nelle note a piè di pagina sarebbe diventata praticamente indelebile, dato che l’edizione avrebbe costituito il punto di riferimento per gli studiosi negli anni a venire. Sviste ed errori che si sarebbero così silenziosamente tramandati nella letteratura, fino a rischiare di alimentare interpretazioni fuorvianti, se non vere e proprie leggende.
Riteneva che chiunque intraprenda il compito di produrre un’edizione critica si stia accollando una grande responsabilità. Quello che viene pubblicato farà – letteralmente – testo per decenni a venire. Anche se si pubblica un articolo spiegando perché a pagina tale e talaltra le note xy e zw sono sbagliate e fuorvianti, quale impatto avrà l’articolo rispetto a un’opera che ha richiesto anni di lavoro e che è ampiamente conosciuta? Quando gli si obiettava che evitare un commento dettagliato significava perdere il patrimonio di conoscenze accumulate dall’editore, rispondeva che si potevano sempre pubblicare le proprie ricerche e opinioni in separata sede. Antonio Favaro era il suo esempio favorito: senza annotare la sua edizione delle opere di Galileo, Favaro pubblicò decine e decine di note e articoli nelle serie “Amici e corrispondenti di Galileo” e “Adversaria Galilaeiana”.
Il seminario di Ascona del 1996 era stato organizzato da Ottavio Besomi, uno dei più importanti italianisti contemporanei, che stava allora curando con Mario Helbing una nuova edizione critica del Dialogo sopra i massimi sistemi. Mi trovavo con Giusti e Besomi, in attesa di andare a cena, e stavamo discutendo della presentazione di Enrico e dei suoi risultati sulla cronologia, quando Enrico gli mostrò la sua edizione dei testi de motu antiquiora. Per meglio mettere in evidenza i vari interventi di Galileo sul suo testo, Giusti aveva usato un diluvio di segni diacritici: oltre alle parentesi quadre e a quelle uncinate, c’erano doppie quadre, doppie uncinate, parentesi graffe, le parti in corsivo avevano un significato particolare ... Per gli scopi che si era prefisso – stabilire una cronologia – poteva anche andar bene, ma il testo risultava decisamente illeggibile. Ottavio, da vero gentiluomo di antico stampo qual è, glielo fece notare con molta discrezione, dicendosi anche disponibile a fornire il suo aiuto, qualora avesse voluto pubblicarlo.
Fu così che l’edizione rimase inedita. Ma non tutto il male vien per nuocere. Alla fine del 1996 il seminario All’alba della matematica moderna si era ormai esaurito e stava per nascere il “Progetto Maurolico”. Enrico, Carlo Maccagni – altro amico scomparso e di cui sento tanto la mancanza – e io pensammo che fosse una buona idea coinvolgere Besomi nell’impresa di costruire un’edizione digitale dell’opera mauroliciana. Ottavio – sventurato! – rispose.
Fu così che negli anni dal 1998 al 2009 le discussioni su come presentare i testi di Maurolico – e più in generale, su come produrre l’edizione di un testo scientifico – si arricchirono di punti di vista e prospettive: oltre a Ottavio si era “convertito” alla critica testuale di scritti scientifici anche un giovane filologo classico, Paolo d’Alessandro. Penso che queste esperienze abbiano avuto un’influenza importante su Enrico e sull’evoluzione del suo lavoro negli ultimi anni, lavoro che l’avrebbe portato ad affrontare l’edizione dell’opera di Leonardo Fibonacci.
Leonardi Bigolli Pisani Opera quae extant omnia
Già a partire dalla metà degli anni Novanta Giusti aveva cominciato a occuparsi della matematica delle scuole d’abaco. Nel 1994 – anniversario della pubblicazione della Summa di Luca Pacioli – insieme con Carlo Maccagni aveva organizzato un importante convegno e una bellissima mostra a San Sepolcro.
Nel 2002 ricorreva l’ottocentesimo anniversario della pubblicazione del Liber abbaci di Leonardo. Ed era anche l’anno in cui, dopo le Torri Gemelle e l’invasione dell’Afghanistan, si stava preparando la sciagurata guerra in Iraq. Enrico ebbe la geniale idea di organizzare un grande convegno internazionale fra Pisa e Firenze che fosse anche un segnale di pace: un convegno dedicato a Leonardo Fibonacci che ricordasse anche quanto la società e la cultura occidentale devono alla civiltà araba. Vi parteciparono tantissimi studiosi, e in particolare arabisti come Roshdi Rashed, Jacques Sesiano, Djamil Aïssani, Ahmed Djebbar. Vi partecipò anche André Allard, che stava da tempo lavorando a un’edizione del Liber e proponeva un criterio per cercare di discernere le sue stratificazioni testuali.
Oltre al convegno allestimmo anche la mostra Un ponte sul Mediterraneo, accompagnata da un volume di saggi. Giusti ne aveva scritto uno molto corposo, Matematica e commercio nel Liber abaci in cui, con le doti di divulgatore e il rigore che gli erano propri, raccontava il contenuto e l’importanza di questo testo per la nascita della matematica e della società moderne.
Fu l’inizio di una passione. Qualche tempo dopo (era il 2015 ed Enrico era ormai in pensione), espose a Veronica Gavagna, Paolo Freguglia e a me il suo progetto di mettere mano a una revisione dell’edizione del Liber che Baldassarre Boncompagni aveva fatto nel 1859. Un libro ormai quasi introvabile quanto i manoscritti di Leonardo e, per di più pieno di errori di trascrizione, soprattutto sotto l’aspetto matematico. Era da tempo che se ne stava occupando, ma si era sempre trattenuto visto che Allard aveva più volte annunciato di star lavorando a un’edizione critica. Ma nel 2014, purtroppo, era morto senza lasciare traccia di questo suo lavoro. Enrico voleva che fosse finalmente disponibile almeno un testo matematicamente leggibile.
Ma non era da lui limitarsi a questo. La sua lunga esperienza nello studio e nella pubblicazione di testi matematici, insieme alle sue amicizie filologiche, lo portarono ben presto a studiare tutti i manoscritti – una ventina! – e il progetto diventò quello di allestire un’edizione critica vera e propria. Cominciammo a vederci a Pisa per ascoltare i suoi progressi e cercare di aiutarlo con i problemi che andava trovando: Carlo Maccagni, Paolo d’Alessandro e io. Fu durante questi incontri che ci espose la scoperta di una versione del testo precedente la revisione che Leonardo ne fece per donarlo a Michele Scoto; fu così che discutemmo a lungo se tale revisione dovesse veramente risalire al 1228 come comunemente si credeva; che venne stabilito che “Fibonacci” è un nome inventato dagli eruditi del Settecento e che, da una prospettiva storica e nonostante l’attuale uso, il matematico pisano dovrebbe essere più correttamente chiamato “Leonardo Bigollo da Pisa”. Soprattutto, esaminammo insieme tantissimi problemi di interpretazione e di ecdotica. In quegli incontri Enrico trovò in Paolo il compagno ideale che lo rassicurava sulle scelte filologiche da compiere in un’edizione così complessa.
Nel 2018 l’edizione critica aveva ormai preso forma, anche se c’era ancora molto lavoro da fare per controllare le collazioni e l’apparato critico; ma il problema principale era quello di trovare i fondi per pubblicarla. Fu grazie a Paolo Galluzzi e al Museo Galileo, insieme con Paolo Mancarella, rettore dell’Università di Pisa, che si riuscì a raggiungere un accordo con la casa editrice Olschki. E, finalmente, nel 2020 videro la luce le ottocento pagine del Leonardi Bigolli Pisani vulgo Fibonacci Liber abbaci: edidit Enrico Giusti adiuvante Paolo d’Alessandro.
L’edizione non era ancora stata pubblicata che Enrico si rimise immediatamente a lavorare – questa volta coinvolgendo Paolo fin dall’inizio – per portare a compimento l’impresa di completare l’edizione delle opere di Leonardo. Mancavano la Practica geometriae, il Liber quadratorum e il Flos. Il lavoro era sostanzialmente finito, quando nello scorso marzo Enrico ci ha lasciato. Grazie a d’Alessandro, sarà comunque portato a termine: nei prossimi mesi l’edizione uscirà, sempre con il supporto del Museo Galileo e dell’Università di Pisa. Non credo di esagerare dicendo che quest’opera solo Enrico avrebbe potuto condurla in porto: solo la sua acutezza matematica e solo la sua passione filologica avrebbero potuto riuscirci.
Fino all’ultimo non ci ha privati del suo consilium et studium. E questi Opera omnia Leonardi Bigolli Pisani sono il monumento più bello che Enrico potesse lasciarci.
*
Rileggo queste righe e mi rendo conto di quanto poco diano conto di questi quarant’anni di amicizia e di lavoro insieme. Vorrei essere riuscito a trasmettere meglio la sua capacità di cogliere il punto centrale di un problema o di una discussione e il suo straordinario dono di spiegare in termini semplici problemi matematici complessi. Queste erano le qualità che facevano di Enrico un insegnante e un divulgatore eccezionale e che si sono incarnate nel Giardino di Archimede, il primo museo al mondo dedicato esclusivamente alla matematica. Così come si ritrovano nella Matematica in cucina, nelle acute riflessioni delle Ipotesi sulla natura degli oggetti matematici e nella chiarezza dei suoi manuali di analisi, sui quali hanno studiato migliaia di studenti.
E non ho detto nulla dei viaggi e dei soggiorni fatti insieme, dei consigli sulla mia carriera accademica, dei pranzi a casa sua a Firenze e del polpettone di sua moglie Francesca, del suo gusto per i vini pregiati e della sua passione per i libri antichi.
Ma, soprattutto, non so quanto sia riuscito a trasmettere dell’aspetto umano di Enrico: la vivacità della sua intelligenza, il senso dell’humour, la sua apertura alla discussione e al confronto. Manca anche un aspetto importante del suo carattere – la sua estrema riservatezza. La riluttanza a parlare di sé o delle sue preoccupazioni personali rendeva difficile stabilire un rapporto più intimo che andasse al di là di quello puramente intellettuale. Eppure, dietro questa facciata di riserbo emotivo, ho sempre avvertito il suo affetto e la sua vicinanza.
E non posso che sentirmi profondamente orgoglioso e grato di aver condiviso con lui tanta parte della mia vita.