Esperti, istituzioni e opinione pubblica di fronte ai rischi naturali: controversie scientifiche e polemiche politiche all’indomani dell’alluvione del Po nel 1872
Università di Ferrara, marco.bresadola@unife.it
Received 18/11/2024 | Accepted 25/11/2024 | Published online 19/12/2024
Abstract
In questo articolo si ricostruisce la storia di un’alluvione che colpì il basso bacino del Po nel 1872, provocando l’allagamento di un ampio territorio e colpendo decine di migliaia di persone. Le cause della rottura degli argini, le responsabilità nella gestione dell’emergenza, le misure da adottare per superare il disastro e le strategie migliori per prevenire il rischio di future alluvioni, furono oggetto di una vivace polemica che coinvolse le istituzioni locali, gli organismi statali di gestione del territorio, numerosi esperti e i mezzi di informazione. Grazie alla ricchezza delle fonti disponibili, questo caso si presta molto bene a fornire un contributo agli studi di storia del rischio che in anni recenti hanno messo al centro la riflessione sul ruolo degli esperti e dei sistemi regolatori nell’affrontare i rischi, la ricostruzione dei legami tra rischi e regimi politici ed economici, l’indagine sui meccanismi di costruzione della memoria dei disastri, ma anche della loro dimenticanza, da parte di istituzioni e gruppi sociali.
English abstract
This article deals with the history of a flood that hit the lower Po River basin in 1872, causing the flooding of a large area and affecting tens of thousands of people. The causes of the levee breach, the responsibilities in managing the emergency, the measures to be taken to overcome the disaster, and the best strategies to prevent the risk of future floods, were the subject of a lively polemic which involved local institutions, state land management bodies, numerous experts, and the media. Thanks to the wealth of available sources, this case offers an interesting contribution to the historiography of risk, which in recent years has focused on the role of experts and regulatory systems in dealing with risks, the links between risks and political and economic regimes, and the mechanisms of construction of the memory of disasters, but also of their forgetting, by institutions and social groups.
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Tra il 28 e 29 maggio 1872, a causa di una piena che era andata crescendo nei giorni precedenti, il fiume Po ruppe gli argini in due punti distanti circa un chilometro, provocando un’esondazione che in breve tempo sommerse gran parte della provincia di Ferrara. La città estense fu risparmiata, ma circa settecento chilometri quadrati di pianura finirono sott’acqua, costringendo all’evacuazione circa 45 mila persone e provocando danni materiali per circa 40 milioni di lire dell’epoca [Ciarmatori, 2011]. In una cronaca degli eventi stesa da un testimone oculare, lo storico ferrarese Antonio Bottoni, leggiamo una descrizione toccante della popolazione colpita che «senza riparo, fra le più terribili angoscie, priva per la più parte di cibo, affranta dalle calamità che svolgevansi sotto i suoi occhi passò sugli argini ben terribili notti, adagiata sopra un bagnato terreno; coricata sotto i carri, o sotto improvvisate tende; esposta all’infido cielo» [Bottoni, 1873, p. 153].
Questa alluvione non fu certamente la prima che sconvolse il bacino del Po, né sarà l’ultima. Solo per rimanere al XIX secolo, se ne contano almeno una dozzina prima del 1872 e un’altra sette anni dopo, per non parlare di quella ben più nota che colpì il Polesine nel 1951. Tuttavia, il disastro del 1872 è rimarchevole per almeno due ragioni: anzitutto per il fatto che in autunno di quell’anno, mentre si stavano tentando di riparare le due rotture che avevano provocato l’esondazione del fiume in maggio, un’altra alluvione colpì il mantovano e nuovamente il ferrarese provocando danni simili sia in termini di territorio inondato che di persone e beni colpiti. Inoltre, proprio a causa della gravità di questa doppia calamità, il governo sabaudo decise di istituire una commissione tecnica che per la prima volta studiasse le condizioni idrauliche del Po in tutto il suo corso e suggerisse le azioni da mettere in campo per evitare nuove alluvioni [Ferrari, Pellegrini, 2011].
Questa commissione, istituita con Regio Decreto nel 1873 e diretta dall’illustre matematico e senatore milanese Francesco Brioschi, era composta da alcuni importanti ingegneri e studiosi di idrologia quali Domenico Turazza ed Elia Lombardini. Essa lavorò per i successivi sette anni a stilare una cartografia del bacino idrografico del Po che rappresenta tuttora la base per gli interventi di gestione del suo territorio, ma non riuscì a completare le misurazioni del livello e della portata del fiume da cui in ultima analisi potevano dipendere le strategie di protezione degli argini. Come ha messo bene in evidenza Giacomo Parrinello in un recente articolo su questa vicenda, la complessità idrografica del bacino fluviale, la forza e imprevedibilità del suo corso impedirono di fatto agli ingegneri della commissione di portare a termine la parte scientifica del loro progetto [Parrinello, 2017].
All’indomani dell’alluvione di maggio, e prima dell’istituzione della commissione Brioschi, furono create altre due commissioni tecniche, una a livello provinciale e una a livello governativo, per indagare sulle cause del disastro. I risultati a cui pervennero furono diametralmente opposti e alimentarono una polemica molto aspra che si sviluppò tra Ferrara a Roma per tutto quell’anno e coinvolse istituzioni, politici, tecnici, cittadini e mezzi di informazione. Oltre alle cause della rottura degli argini, la polemica riguardò le responsabilità nella gestione dell’emergenza, le misure da adottare per superare il disastro e le strategie migliori per prevenire il rischio di future alluvioni. Grazie alla ricchezza delle fonti disponibili, questo caso si presta molto bene a fornire un contributo agli studi di storia del rischio che in anni recenti hanno messo al centro la riflessione sul ruolo degli esperti e dei sistemi regolatori nell’affrontare i rischi, la ricostruzione dei legami tra rischi e regimi politici ed economici, l’indagine sui meccanismi di costruzione della memoria dei disastri, ma anche della loro dimenticanza, da parte di istituzioni e gruppi sociali [Boudia, Jas, 2007]; [Mohun, 2016]; [Li, Hills, Hertwig, 2020].
In questo articolo si ricostruiscono gli aspetti essenziali della polemica legata all’alluvione del maggio 1872, mettendo in risalto i differenti risultati a cui pervennero le due commissioni tecniche, nonché le divergenze mostrate dagli esperti nell’individuare le cause del disastro e le strategie migliori per affrontare l’emergenza. Esso è parte di un progetto di ricerca più ampio, che intende indagare i rischi naturali, in particolare quelli legati alla scarsità o abbondanza di acqua, in una prospettiva interdisciplinare, che unisca gli strumenti delle scienze sociali con la metodologia della ricerca storica. L’obiettivo del progetto è quello di analizzare la percezione e comunicazione del rischio idrologico nel bacino del Po nel contesto attuale e nella loro dimensione storica, al fine di promuovere la conoscenza del territorio e la capacità di resilienza delle popolazioni coinvolte.
Istituzioni in conflitto
La dinamica dell’alluvione di maggio suscitò immediatamente delle vivaci polemiche sulle responsabilità del disastro da parte delle istituzioni locali. L’alluvione avvenne per il cedimento sia dell’argine maestro che della coronella, ovvero un argine secondario che era stato da poco terminato per rafforzare le difese dalle piene del fiume. A sovrintendere i lavori era stato preposto il Genio Civile, un corpo tecnico statale che in seguito all’Unità d’Italia aveva ereditato i compiti relativi alla gestione e alla sicurezza del bacino fluviale. Mentre durante il periodo estense e poi quello papale, il tratto di Po pertinente al ferrarese era stato infatti gestito da magistrature locali e si era basato sul sistema dei lavorieri del Po, fondato sul lavoro obbligatorio dei contadini e sulla contribuzione dei proprietari terrieri, in seguito a una legge del 1865 sui lavori pubblici il Genio civile avocò a sé la gestione dei lavori di rafforzamento degli argini e il monitoraggio delle piene [Bottoni, 1873, p. 150]; [Cazzola, 2021].
La polemica esplose un paio di settimane dopo il disastro sulle pagine della Rivista dell’inondazione, un giornale apparso a Ferrara il 14 giugno a opera di un gruppo di cittadini desiderosi di «sostenere l’interesse dei danneggiati», «informare con esattezza e sollecitudine il pubblico sull’andamento dell’inondazione» e «porre in discussione quelle misure che si credessero necessarie a premunire la provincia contro il pericolo di nuovi allagamenti» [Rivista dell’inondazione, 1872, n. 1]. Sul secondo numero, pubblicato il giorno successivo, apparve il parere anonimo di «un amico ingegnere» [Rivista dell’inondazione, 1872, n. 2] che individuava la causa dell’inondazione nella pessima esecuzione dei lavori di arginatura fatti negli anni precedenti e faceva ricadere sul Genio civile sia la responsabilità di non aver saputo gestire questi lavori, sia la colpa di ritardi e inefficienze negli interventi di emergenza per rimediare alle rotture degli argini [Rivista dell’inondazione, 1872, n. 2].
A rendere in qualche modo ufficiali le accuse al Genio civile ci pensò una commissione istituita dal Consiglio provinciale di Ferrara il 2 settembre, ma operante in realtà dal primo luglio, che si basò soprattutto sulle testimonianze di coloro cha a vario titolo avevano partecipato ai lavori di arginatura degli anni precedenti. La relazione in particolare puntava il dito contro la realizzazione della coronella fatta innalzare solo due anni prima in modo da costituire un secondo argine proprio nel tratto coinvolto dall’esondazione. Gli stessi operai che avevano eseguito questi lavori dichiararono «aver essi mal lavorato perché mal retribuiti; che avvertiti della visita degli ingegneri governativi mascheravano con terra il malfatto; che soltanto sotto gli occhi dei medesimi alzavano l'argine a norma di legge; e che lavoravano ancor di notte, senza che occhio alcuno li sorvegliasse fuor di quelli, come fu detto, delle stelle» [Bottoni, 1873, p. 146]. La colpa era dunque dell’appaltatore ma soprattutto dei tecnici del Genio civile, che avrebbero dovuto sovrintendere i lavori e controllarne la corretta esecuzione. A questa accusa di negligenza rivolta al personale statale la commissione aggiungeva quella di non aver prestato ascolto agli allarmi che erano stati lanciati dai proprietari terrieri nei mesi successivi, e fino a qualche giorno prima dell’alluvione, rispetto alla tenuta della coronella. Nel riferire l’esito dei propri lavori al consiglio provinciale, il presidente della commissione Gioacchino Pepoli accusò «la imperizia del Genio Civile che alzò gli argini di Guarda, la prevaricazione degli impiegati inferiori, i furti degli appaltatori, lo spirito ignorante e presuntuoso dei funzionari», suggerendo la possibilità di un’azione legale contro il governo per i danni subiti nell’alluvione [Bottoni, 1873, p. 187].
Alla lettura della relazione, il 21 ottobre, era presente anche il prefetto, che prima dell’estate aveva tentato inutilmente di impedire la costituzione della commissione. Egli reagì contestandone i risultati e rimettendosi al parere di una seconda commissione, che nel frattempo era stata nominata dal governo con a capo l’ingegnere e ispettore del Genio civile Alberto Cavalletto, colui che stava guidando la gestione dell’emergenza. La relazione di questa commissione era datata 28 settembre, ma fu resa pubblica solo all’inizio di gennaio del 1873 dopo aver ricevuto il benestare del Consiglio superiore dei lavori pubblici. In essa si individuava la causa dell’esondazione in un sifone creatosi al di sotto dell’argine in un punto nel quale erano potute avvenire esplosioni di depositi sotterranei di torba; si assolvevano i lavori di rinforzo degli argini in quanto l’alluvione non era stata causata da tracimazione, infiltrazione di acqua, disfacimento dell’argine o da altro danno imputabile a cause tecniche; si assolveva infine anche il sistema di sorveglianza degli argini, in capo al Genio civile, in quanto la creazione del sifone con conseguente rottura dell’argine era avvenuta improvvisamente e senza possibilità di rimedio [Regno d’Italia, 1873].
Nell’approvare la relazione governativa, il Consiglio dei lavori pubblici prendeva di mira l’inchiesta della Commissione provinciale accusandola di parzialità e pregiudizio: «solo scopo della Commissione – si legge nel parere del Consiglio pubblicato sul Giornale del genio civile – fu quello di trovare dei colpevoli, nella speranza, che trovata la colpa e i rei, sarebbe stabilito il diritto [dei danneggiati] ad indennità pecuniaria. Un’inchiesta su queste basi non è un’inchiesta per constatare la verità, ma è un preliminare lavorio di patrocinio, per intentare un litigio al Governo» [Consiglio superiore dei lavori pubblici, 1873, p. 90-91]. D’altra parte, un’accusa analoga, ma a parti invertite, era stata mossa alla stessa commissione governativa da esponenti locali ferraresi, che sulle pagine della Rivista dell’inondazione avevano denunciato il fatto che a comporre questa commissione erano stati chiamati funzionari appartenenti allo stesso organismo – il Genio civile – che era sul banco degli imputati. Per la Rivista, «questa giustizia in famiglia non poteva tranquillizzare l’opinione pubblica, la quale è troppo preoccupata dal dubbio che lo spirito di corpo non sia compatibile colla voluta imparzialità» [Rivista dell’inondazione, 1872, n. 14, p. 49].
Le conclusioni opposte raggiunte dalle due commissioni sulla causa dell’alluvione – responsabilità umana per l’inchiesta provinciale, cause naturali per quella governativa – erano dunque strettamente legate agli interessi che muovevano le istituzioni che le avevano volute e al ruolo dei tecnici che le componevano. Un osservatore esterno, anche se certamente non disinteressato, come Bottoni sottolineò gli aspetti politici di questa polemica nella sua cronaca, accusando di parzialità entrambe le inchieste e aggiungendo un elemento fondamentale per comprendere la diversa natura degli approcci che le avevano guidate:
Base di quello della prima [cioè del rapporto della Commissione provinciale] erano state le deposizioni contro il lavoro fatto; di quello della seconda [cioè della Commissione governativa] venivano invece ad essere il calcolo e le terebrazioni. Lunghe e ponderate furono le esperienze fatte dalla stessa sui luoghi, saggi i quesiti e le analisi proposte agli esperti, moltiplicati i rilievi, praticate le sezioni geologiche, non trascurata la planimetria, ogni cosa insomma portata al punto dalla perfezionala scienza idraulica oggidi raggiunto. Nulla di tutto questo nel rapporto della Commissione Provinciale, ma in concambio più ammissibile conclusione [Bottoni, 1873, p. 188].
La differenza tra le due commissioni non nasceva dunque solo dagli interessi politici che le muovevano, ma anche da un diverso approccio al problema, che potremmo chiamare giudiziario nel primo caso, tecnico-scientifico nel secondo. La voce dei testimoni – lavoratori edili, proprietari terrieri, contadini – era contrapposta al parere degli esperti, senza però che questo si rivelasse determinante per orientare l’opinione pubblica; anzi, come ebbe a scrivere la Rivista dell’inondazione a proposito dell’inchiesta governativa, «o il pubblico nulla avrebbe compreso dell’argomentazione [tecnica] con cui [i risultati] potessero essere giustificati, o comprendendo le lacune e i difetti di quell’argomentazione, non avrebbe mancato di proferire un giudizio diverso da quello dell’inchiesta ministeriale» [Rivista dell’inondazione, 1872, n. 14, p. 50]. Insomma, in questa vicenda gli interessi in campo erano talmente in conflitto da impedire qualsiasi possibilità di pervenire a un parere condiviso sulle cause dell’alluvione, fosse anche basato sulle evidenze scientifiche.
Esperti in conflitto
La polemica sulle cause dell’alluvione non fu alimentata solamente dalle relazioni delle commissioni di inchiesta istituite nel corso del 1872, ma anche dagli interventi di numerosi esperti, dagli ingegneri coinvolti direttamente nelle due commissioni a quelli che ricoprivano ruoli di gestione del bacino fluviale, fino a studiosi di idrologia che a vario titolo proposero il loro parere su giornali e in scritti d’occasione. Oltre a dividersi sull’attribuzione delle responsabilità della rottura degli argini, questi esperti si confrontarono sulle cause delle esondazioni ricorrenti del Po, sugli interventi tecnici per riparare i danni provocati dall’alluvione e sulle strategie per prevenire il rischio di disastri futuri. Su quest’ultimo aspetto, l’alluvione rappresentò un’occasione importante per porre al centro dell’attenzione la necessità di studi scientifici di ampio respiro sull’idrologia del fiume più lungo d’Italia [Parrinello, 2017, p. 8-10].
Uno dei più autorevoli esperti a intervenire nella polemica fu Elia Lombardini, ingegnere idraulico lombardo che aveva ricoperto ruoli di primo piano in vari organi consortili ed era stato tra gli estensori della legge sui lavori pubblici del 1865 di cui abbiamo parlato sopra. In un articolo Sulle piene e sulle inondazioni del Po nel 1872, comparso sul noto periodico Il Politecnico, Lombardini si soffermava soprattutto sull’inondazione che nell’autunno aveva colpito la provincia di Mantova e l’alto ferrarese, ma analizzava più in generale le cause del progressivo aumento della elevazione delle piene del Po che era possibile ricavare dai dati degli ultimi decenni. Il livello del fiume era in costante incremento per una concatenazione di cause, tra le quali andavano annoverati fenomeni meteorologici (principalmente le precipitazioni), le opere di arginamento del tratto superiore del Po e dei suoi affluenti, con il conseguente aumento della portata del fiume nel tratto inferiore, e soprattutto il «dissodamento de' boschi nella regione montuosa del bacino del Po» [Lombardini, 1873, p. 15]. L’abbattimento degli alberi diminuiva infatti la compattezza del suolo e facilitava il trasporto di terra e detriti, smossi dalle precipitazioni, nei corsi d’acqua che terminavano nel grande fiume, con il conseguente innalzamento del suo livello [Lombardini, 1873, p. 15].
L’identificazione delle attività umane di deforestazione e arginamento dei corsi d’acqua come cause, o concause, delle alluvioni e, più in generale, della rottura di un equilibrio naturale del territorio è un tema ricorrente nella letteratura, non solo scientifica, dell’epoca e lo si ritrova anche in periodi precedenti [Bottoni, 1873]; [Guidoboni, 1998]; [Barca, 2010]. Ma rischiava di oscurare responsabilità molto più dirette nella gestione degli argini o nel controllo delle piene. Un ingegnere meno noto di Lombardini ma direttamente coinvolto nella gestione del territorio ferrarese, Angelo Manfredi, intervenne all’indomani dell’alluvione per denunciare «la mala costruzione dell’argine, che si è squarciato, l’imprudenza di porlo alla prova di piena, tagliando l’argine vecchio […] e la trascurata sorveglianza dello stesso» [Rivista dell’inondazione, 1872, n. 15, p. 53]. Le accuse di Manfredi, sostanzialmente analoghe a quelle formulate successivamente dalla commissione d’inchiesta provinciale, riguardavano anche la gestione dell’emergenza e i lavori intrapresi per riparare gli argini crollati. In questo caso uno degli obiettivi polemici era proprio Lombardini, reo di aver promosso nella sua attività professionale un metodo di rinforzo degli argini che secondo Manfredi non era abbastanza efficace [Lombardini, 1874].
Ancora più biasimevoli erano però, secondo Manfredi, le scelte fatte dai responsabili dell’emergenza per limitare i danni causati dall’alluvione. In una lettera apparsa sulle pagine di vari giornali durante l’estate, egli si chiedeva come mai all’indomani della rotta del 28 maggio non si fosse agito sugli argini del Canal Bianco, un canale che correva lungo il lato destro del Po, in modo da arrestare l’inondazione entro un territorio relativamente ridotto. Se si fosse innalzato l’argine destro del canale in un certo tratto e contemporaneamente si fossero praticati dei tagli nell’arginatura verso lo sbocco a mare, le acque provenienti dal Po avrebbero potuto infatti defluire lungo questo corso d’acqua, senza sormontarlo e inondare la pianura circostante (Fig. 1) [Rivista dell’inondazione, 1872, n. 15, p. 53]. A rispondere a questa accusa di negligenza fu Francesco Magnoni, «ingegnere primario del 1° Circondario» [Manfredi, 1872], che liquidò la proposta di Manfredi come impraticabile alla luce della portata d’acqua coinvolta e della rapidità degli eventi, e accusò a sua volta il collega di essere in malafede, avendo rivolto un’accusa di imperizia a chi, diversamente da lui, ricopriva incarichi di responsabilità in questo ambito. In effetti, al centro di questa polemica stava la rispettabilità professionale degli esperti coinvolti. Come disse chiaramente Manfredi nella sua risposta, «l’ingegnere conte Magnoni ha molta capacità pratica, e da questo lato è giustissima la fiducia in lui riposta […]. Non è così quando la sola pratica è insufficiente [cioè quando era necessaria una conoscenza teorica, in questo caso idrologica, dei fenomeni coinvolti]; allora per lui le cose volgono molto altrimenti; fu questo appunto che gli fece scorgere ostacoli [nell’intervenire sugli argini del Canal Bianco] dove non erano» [Manfredi, 1872, p. 13].
In questa immagine è rappresentato il territorio colpito dall’alluvione, che copre sostanzialmente tutta la provincia di Ferrara nel tratto verso il mare compreso tra il Po Grande e il Po di Volano. Si vede la linea continua che delimita l’inondazione a est di Ferrara, l’area della bonificazione ferrarese e il punto della rotta, tra i paesi di Ro e Guarda Ferrarese.
Scienza e istituzioni nella prevenzione del rischio
Nella sua memoria sulle alluvioni del 1872, Lombardini non discuteva solo le cause delle piene e delle esondazioni del Po, ma anche le strategie per prevenirle o almeno limitarle, a cominciare da quelle di ordine organizzativo. Secondo l’ingegnere lombardo, il Genio civile doveva assumere l’intera competenza sulla gestione e il controllo del bacino fluviale, senza l’attuale distinzione tra un servizio statale e uno provinciale. Inoltre i tecnici assunti per il servizio idrologico avrebbero dovuto ricevere un compenso adeguato, analogo a quello che ricevevano ad esempio i tecnici delle ferrovie e del settore metallurgico, ed essere promossi non solo in ragione dell’anzianità, ma soprattutto della «capacità» e «attività» [Lombardini, 1873, p. 18]. Infine, dovevano possedere una conoscenza approfondita delle caratteristiche del fiume nello specifico territorio di loro competenza, e quindi essere scelti in base all’esperienza e non subire continui spostamenti di sede, come purtroppo era accaduto per la provincia di Ferrara:
Ora con tutti questi tramutamenti di personale nella dirigenza degli uffizi del Genio Civile come è possibile che il servizio idraulico il quale richiede una perfetta conoscenza delle circostanze locali proceda regolarmente? Basta il dire che, giusta quanto dichiara l’ispettore Barilari, in dodici anni si videro nella provincia di Ferrara cangiare sei volte l’ingegnere capo; e si dovette ivi valersi per la direzione di lavori idraulici d’ingegneri di terza classe, d’ingegneri allievi, e di custodi che secondo lui, mancherebbero della necessaria esperienza [Lombardini, 1874, p. 14].
L’importanza di una conoscenza locale, situata rispetto alle condizioni specifiche del fiume e del territorio nel quale scorreva, era l’argomento fondamentale sul quale insistevano anche i promotori della creazione di una scuola di ingegneria idraulica a Ferrara. Lombardini era tra coloro che da anni denunciavano l’arretratezza degli studi idraulici in Italia e ribadivano la necessità di promuovere la conoscenza della «fisica de fiumi» e della «idraulica pratica» in una «scuola apposita d’ingegneri idraulici» che poteva trovare sede a Ferrara o a Bologna [Lombardini, 1873, p. 18-19]. Ma all’indomani del disastro del 1872 i ferraresi insistettero che una tale scuola dovesse essere istituita nel loro territorio, come peraltro era stato promesso dai governanti in epoca preunitaria [Fiocca, Pepe, 1986]. Sulle pagine della Rivista dell’inondazione fu lanciata una campagna di mobilitazione per sostenere il mantenimento di una promessa più volte fatta, e più volte disattesa, anche dall’attuale regime, ricordando il parere di una commissione governativa secondo cui «nessun’altra località in Italia si prestasse meglio che Ferrara alle applicazioni idrauliche» [Rivista dell’inondazione, 1872, n. 13, p. 43]. L’istituzione di questa scuola era addirittura vista come lo strumento fondamentale per prevenire il ripetersi di simili disastri nel futuro:
In quanto ai mezzi atti ad allontanare il pericolo di nuove inondazioni, […] [uno] è la istituzione in Ferrara della scuola idraulica […]. Per la nostra provincia sono indispensabili idraulici non solo provetti, ma che per lunga dimora conoscano il terreno palmo a palmo, sicché possano in piena cognizion di causa studiarsi di rendere innocui e se possibili utili all’agricoltura i numerosi e possenti corsi d’acqua che l’attraversano [Rivista dell’inondazione, 1872, n. 1, p. 2].
Le proposte di istituzione della scuola di ingegneria idraulica e di riorganizzazione del Genio civile non ebbero, almeno nel breve termine, alcun seguito. Altre scuole di ingegneria furono nel frattempo istituite in varie città italiane, tra cui Milano e Torino, mentre la questione della responsabilità della gestione del territorio fu, ancora una volta, oggetto di polemiche. Lo stesso Lombardini ricordava come la sua opinione non era affatto condivisa da chi, come ad esempio Manfredi, riteneva che dovessero essere le provincie, e non lo stato, a doversi occupare della regolamentazione dei fiumi [Lombardini, 1874, p. 9-10].
Conclusione
Le polemiche suscitate dall’alluvione del 1872 consentono di allargare lo sguardo oltre a una prospettiva di storia dei disastri naturali e nella direzione di una più ampia storia del rischio. Studi recenti di storia ambientale hanno evidenziato come i disastri naturali, soprattutto quelli ripetitivi come le alluvioni, abbiano spesso prodotto non solo cambiamenti significativi nei comportamenti delle popolazioni colpite e nella gestione politica dei territori coinvolti, ma siano state occasioni di apprendimento e conoscenza. Lo sviluppo di sistemi di monitoraggio e prevenzione del rischio, la messa a punto di strategie di compensazione dei danni, l’evoluzione delle tecniche di costruzione di edifici, infrastrutture e protezioni sono tutti ambiti fortemente influenzati dall’accadimento di calamità naturali e possono essere studiati sia da una prospettiva di storia localizzata, sia in ottica comparata e globale [Pfister, 2009]. Tuttavia, nel caso analizzato in questo articolo è la natura stessa della conoscenza – generale o locale, fornita da esperti o derivante da testimonianze di persone comuni – a essere messa in discussione assieme al ruolo dei tecnici di fronte all’opinione pubblica. Proprio come accaduto durante la recente pandemia di COVID-19, anche in occasione dell’alluvione del 1872 una molteplicità di esperti intervenne a vario titolo per esprimere opinioni spesso divergenti, generando così un senso di sfiducia nei confronti delle istituzioni, come traspare dalle pagine della Rivista dell’inondazione o della cronaca di Bottoni.
Il ruolo a un tempo cruciale e fortemente problematico degli esperti e della conoscenza di cui sono portatori è un aspetto centrale della moderna società del rischio, per riprendere la locuzione resa celebre da Ulrich Beck ormai quarant’anni fa [Beck, 2000]. Altrettanto fondamentale è l’idea della natura ibrida dei rischi che caratterizzano la nostra società e che sfuggono a una classificazione basata sulle categorie di naturale e artificiale. Anche su questo tema la storia dell’alluvione del 1872 fornisce spunti interessanti. Come abbiamo visto, l’esondazione del Po fu attribuita sia a cause naturali, quali l’aumento delle precipitazioni o fenomeni di erosione degli argini per l’azione dell’acqua, sia a fattori umani più o meno contingenti, quali il secolare processo di deforestazione del bacino fluviale o le opere di arginatura e contenimento dei corsi d’acqua per lo sfruttamento del territorio. Anche sulle strategie di prevenzione gli esperti si divisero tra coloro che sostenevano la priorità di interventi artificiali di innalzamento e rinforzo degli argini e chi, come Lombardini, insisteva che tali interventi sarebbero risultati inefficaci senza ripristinare la natura boschiva del tratto iniziale del fiume.
Un confronto per certi versi analogo caratterizza il dibattito attuale intorno a un progetto di rinaturazione del bacino del Po, oggetto di uno dei più ingenti finanziamenti di carattere ambientale del PNRR. Il progetto si basa su «un approccio alternativo che faccia dialogare il contesto ambientale inteso in termini funzionali dal punto di vista ecologico, geomorfologico e paesaggistico, tenendo conto delle esigenze di difesa dalle piene e degli utilizzi della risorsa idrica e della fruibilità» [ABDPO, 2022]. Nato con l’obiettivo di «gestire e non contrastare la dinamica fluviale, ridurre l’artificialità, aumentare la naturalità attraverso rimboschimenti e contrasto alle specie alloctone» [ABDPO, 2022]. Il progetto è stato criticato da più parti sia per l’impatto potenzialmente negativo sulle attività produttive, sia in nome di una differente strategia di mitigazione del rischio ambientale, basata non sul concetto di rinaturazione ma su quello di bacinizzazione, ovvero la costruzione di argini e dighe che permettano il controllo delle acque sia in condizione di sovrabbondanza che di scarsità [Spallino, 2023].
Gli studi di carattere sociale che si occupano di gestione, percezione e comunicazione di rischi come alluvioni, terremoti o altri eventi naturali estremi da tempo affrontano questioni quali l’origine e la natura della conoscenza implicata nelle situazioni di rischio, il ruolo degli esperti nella produzione e comunicazione di questa conoscenza, gli interessi in gioco tra i vari attori istituzionali coinvolti, la percezione pubblica di questi ruoli e interessi. Ma, come dimostra l’alluvione del 1872, queste questioni non sono affatto esclusive della moderna società del rischio e possono essere indagate anche adottando una prospettiva storica, arricchendo in tal modo l’interpretazione dei dati forniti dall’indagine sociologica e contribuendo alla costruzione di una storia del rischio che metta al centro la natura mutevole e contingente di questo concetto.