Folklore, Razza, Fascismo, a cura di Fabiana Dimpflmeier
Università degli Studi di Verona; fedraalessandra.pizzato@univr.it
Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2023.
ISBN: 9788822268556
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Raffaele Petazzoni, uno dei padri degli studi demo-etno-antropologici italiani, iniziò a collaborare come recensore per la serie storica di Scientia già negli anni ’10 del secolo scorso. È dunque ben giustificato che uno dei maggiori contributi critici sulla storia di tali studi nel difficile periodo 1920-1945 riceva l’attenzione di questa rubrica. Il volume, a cura di Fabiana Dimpflmeier, è apparso inizialmente come numero speciale della rivista Lares [Antropologia italiana e fascismo. Ripensare la storia degli studi demoetnoantropologici, «Lares», LXXXVII, n. 2-3, maggio-dicembre 2021] e oggi è riedito come monografia. Vi si trovano riunite diverse prospettive storiografiche, che vanno dalla storia della scienza alla storia culturale, passando per contributi di noti ricercatori che, dall’interno delle discipline, si sono contraddistinti nel tempo per una costante attenzione alla storia degli studi.
La pluralità degli approcci nasce dalla necessità di una sostanziale revisione storiografica della demo-etno-antropologia del Ventennio fascista. Una rilettura critica, sebbene già auspicata da Sandra Puccini e Massimo Squillacciotti nel 1980 [Per una prima ricostruzione critico-bibliografica degli studi demo-etno-antropologici italiani tra le due guerre], tardava infatti a venire. Da un lato pesava il ‘silenzio dei giganti’ (titolo indovinato anche del saggio dedicato alla rimozione del folklore di Regime dalla storia degli studi a firma di Fabio Mugnaini, con cui si apre la raccolta), che a partire dal dopoguerra rivendicarono la necessità di chiudere una stagione per proseguire su strade nuove. Dall’altro vigeva una narrazione che considerava il periodo fascista al limite dell’irrilevanza poiché ritenuto ‘scarsamente originale’. Si tratta di due posizioni pienamente riviste nel volume. Ne è un chiaro esempio il saggio della stessa Dimpflmeier dedicato a Petazzoni e al suo rapporto con Frazer, che ripercorre il primo tentativo, dopo la scomparsa di Mantegazza e Loria, di internazionalizzare e ridisegnare gli studi italiani sul modello anglosassone.
Dal volume, tuttavia, emerge soprattutto la complessità degli studi demo-etno-antropologici nel periodo fascista. Da un lato, su un piano che coinvolge i rapporti e la vita delle istituzioni (società, istituti, musei), si nota la coesistenza di diversi portatori di interessi. Sia il saggio di Cavazza che quelli di Blando, D’Amato e soprattutto quello di Piasere, mettono in luce le strategie dei più giovani studiosi che videro nel fascismo un’opportunità di carriera. Sul piano individuale, come mostra il caso di Paolo Toschi, l’adesione al Regime maturò da esperienze generazionali come la Prima guerra mondiale e la scarsa permeabilità del sistema accademico italiano. È interessante notare però che l’agency della nuova generazione di studiosi si espresse anche in modo corale, sia all’interno delle società scientifiche che nel contesto dell’elaborazione di documenti di Regime. La storia del Secondo manifesto della razza, promosso da Acerbo e sostenuto, tra gli altri, da Sergi, è un esempio significativo di come l’adesione a diverse tipologie di razzismo (mediterraneista, filonazista ecc.), finisse per coincidere con il supporto non solo a diverse posizioni politiche, ma a diversi gruppi di potere nelle istituzioni scientifiche. Tuttavia, il volume non dimentica di notare che fede politica e istanze scientifiche non sempre si rispecchiavano chiaramente. Notevolissimo in questo senso è il caso, studiato da Pogliano, del socialista Pieraccini, la cui formazione positivista, incentrata sui temi dell’ereditarietà (anche psichica), lo portò a esprimere idee consonanti con la biopolitica del Regime, ad esempio in merito al ruolo della donna nella società.
Dalla lettura del volume, emergono dunque, da un lato, il complesso rapporto tra diversi stili di pensiero (Fleck, Hacking), posizioni politiche, agency personale e strategie collettive all’interno delle istituzioni scientifiche, dall’altro, l’abile uso che il Regime seppe fare delle divisioni tra studiosi e tra gruppi per garantirsi sostegno o acquiescenza.
Da notare, inoltre, che diversi attori condividevano anche lo stesso ambiente di ricerca nello spazio coloniale, come evidenziano i saggi di Dore e Colajanni. Tuttavia, dalla compresenza spaziale e dalla comunanza degli oggetti di studio, non derivarono collaborazioni né un dialogo interdisciplinare. Ciascuno studioso o piccola equipe si muoveva con autonomia di metodi e domande di ricerca, senza una condivisione di idee e di pratiche tra ambiti di studio vissuti e percepiti come indipendenti. Nelle colonie, l’indirizzo politico che movimentava le risorse e dettava le agende, unito all’eredità delle esplorazioni ottocentesche, soffocò ogni possibile interazione o innovazione. Tale esito è evidenziato anche dal mancato rinnovamento della museologia etno-antropologica coloniale del periodo rispetto alle norme elaborate nei decenni precedenti.
Concludendo, il volume riveste un grande interesse in quanto inaugura un nuovo corso nella storia delle discipline demo-etno-antropologiche nel Ventennio fascista. Da un lato apre finalmente a una nuova storiografia, attenta ai rapporti tra scienza e potere e aperta alle prospettive internazionali, di genere, e agli scambi tra ambiti diversi nelle scienze e nella società. Dall’altro, si interroga sul ruolo sociale della storia delle discipline nel quadro socio-politico attuale e sulla necessità di una riflessione critica e autocritica in una prospettiva di vero civic engagement (richiamato esplicitamente da Mugnaini), che parte dalle aule universitarie e si estende alla società nel suo complesso.