Carlo Maccagni (1932-2022)
Università degli Studi di Pisa; pier.daniele.napolitani@unipi.it
Seminario di Storia della Scienza-Bari; argante1971@gmail.com
Per scaricare l'articolo in pdf visita la sezione "Risorse" o clicca qui.
Carlo Maccagni, che ci ha lasciato lo scorso settembre, è stato senza dubbio uno dei protagonisti e dei fondatori della storia della scienza in Italia.
Ancora trentaduenne, nel 1964, Maccagni organizzò le manifestazioni per il quarto centenario della nascita di Galileo; segretario della Giunta Scientifica della Domus Galilaeana nel 1966 (diretta da Giovanni Polvani) a Pisa, nello stesso anno diede vita al “Primo convegno internazionale di ricognizione delle fonti per la storia della scienza italiana: i secoli XIV-XVI”.
La sua passione per la storia della scienza e della tecnica e le sue capacità organizzative lo portarono a ricoprire molti incarichi istituzionali, sia in Italia, sia in ambito internazionale – basti ricordare, fra tutti, che fu presidente dell’International Commission on the History of Technology (1977-1981), fondatore del Centro di studio sulla Storia della Tecnica del CNR (1972-2002), redattore e poi condirettore di Physis Rivista internazionale di storia della scienza. E la stessa passione la dedicò all’insegnamento nei corsi da lui tenuti negli atenei di Pisa e di Genova e nelle scuole di dottorato di Bari e di Pisa.
Non ho avuto la fortuna di essere suo allievo, anche se i miei primi contatti con Carlo risalgono al 1982: incontrandolo alla Domus, gli consegnai il mio primo lavoro. Qualche giorno dopo – non senza qualche trepidazione – gli chiesi cosa ne pensasse: «Non stia a far domande sciocche!» mi rispose «Sa benissimo che è buono!» In questa risposta c’era molto di Carlo: i suoi modi un po’ burberi, ma sinceri; la sua disponibilità incoraggiare e aiutare i giovani che volessero imboccare la strada dei suoi studi.
Ovviamente, le nostre strade tornarono a incrociarsi molte volte, ma fu solo a partire dalla fine degli anni Novanta che cominciai davvero a conoscere Carlo più da vicino. Nel 1998 era stato avviato il Progetto Maurolico, mirato a dare un ordine e una struttura al mare magnum di scritti di Francesco Maurolico (1494-1575), alla cui nascita – e poi al suo sviluppo – Maccagni aveva dato un contributo fondamentale. Purtroppo, a partire dal 2005, se ne era allontanato: la sua amatissima moglie, Giovanna Derenzini, era stata colpita da una grave malattia. Carlo si ritirò da ogni impegno accademico e le fu vicino fino alla morte, nell’agosto del 2007.
In un primo momento aveva pensato di ritirarsi a Tortona, nella sua terra d’origine. Ma voleva seguire da vicino la pubblicazione del Trattato d’abaco per l’Edizione nazionale degli scritti di Piero della Francesca, su cui Giovanna aveva dedicato le sue grandi competenze di paleografa e filologa fino ai suoi ultimissimi giorni. In questo modo era riuscito a scuotersi dal dolore di una perdita profonda e a riprendere i contatti e le collaborazioni. Fu così che rimase a Pisa, e fu così che i nostri rapporti divennero sempre più stretti.
Eravamo nel pieno del lavoro per trasformare il Progetto Maurolico in un’Edizione nazionale e non si poteva fare a meno dei consigli e dell’esperienza di Maccagni per questa impresa che sarebbe poi andata in porto nel 2009, con la costituzione dell’Edizione Nazionale dell’opera matematica di Francesco Maurolico: la sua esperienza e i suoi consigli furono preziosissimi. E ai nostri rapporti contribuiva anche la sua collaborazione al dottorato in storia della scienza di Pisa: oltre a seminari rivolti ai dottorandi, seguì alcune tesi – quelle di Roberta Tucci sul De expetendis et fugiendis rebus di Giorgio Valla (2008), di Fabio D’Angelo sui viaggi scientifici in Francia di alcuni ingegneri napoletani (2015), di Claudia Addabbo sul Libellus de impletione loci di Maurolico (2015). Sono certo che Roberta, Fabio e Claudia ricordino ancora il valore dei consigli e della guida che ricevettero nel loro lavoro.
D’altra parte, quanto Carlo si dedicasse a seguire il lavoro dei giovani, con quale passione e con quale impegno, è testimoniato dal Ricordo di Argante Ciocci pubblicato in queste stesse pagine.
In particolare Carlo si entusiasmò per il lavoro di un giovane dottorando tedesco, Martin Frank. Martin era venuto in Italia durante i suoi studi universitari, con una borsa Erasmus. Si era appassionato alla storia della meccanica e aveva vinto una borsa di dottorato a Pisa con un progetto sull’opera di Guidobaldo dal Monte. Il lavoro di tesi si presentava difficile: la letteratura era piuttosto consistente e c’era il rischio reale che non si riuscisse a produrre niente di originale. Fu Maccagni a proporre il punto di vista corretto: collocare le ricerche di meccanica di Guidobaldo nel contesto della sua attività di ingegnere e architetto del ducato di Urbino. Frank avrebbe poi scritto una tesi di grande valore (Carlo ne fu correlatore insieme a Jürgen Renn e a me): Guidobaldo dal Monte’s Mechanics in Context, da cui emerge una figura di scienziato fino ad allora inedita e una notevole proposta interpretativa (2012).
Questo approccio era ispirato da uno dei leitmotiv della riflessione storiografica di Maccagni: il concetto di «strato culturale intermedio», a suo avviso cruciale per comprendere la cultura – e in particolare la cultura scientifica – del Rinascimento. Lo definiva uno strato culturale, perché attraversava tutte le classi sociali, dall’artigiano al nobile. Intermedio perché vi appartennero coloro che non erano illetterati, ma nemmeno ambivano alle professioni liberali – medicina, diritto, teologia. Come si vede anche dal Ricordo di Ciocci, questo suo approccio si è rivelato molto fecondo per capire cosa avvenne alla cultura scientifica nell’Italia del Rinascimento.
Lo stesso Maccagni aveva dedicato vari suoi studi all’approfondimento di questo concetto, lavorando su Leonardo da Vinci, Piero della Francesca, Luca Pacioli, Leonardo Pisano, la famiglia Della Volpaia (attiva nel produrre strumenti scientifici tra il XV e il XVII secolo), sulla storia della cartografia e della navigazione all’epoca delle grandi scoperte geografiche, sulla cultura dei tecnici tra Quattrocento e Cinquecento. Tuttavia, se si scorre l’elenco delle sue pubblicazioni (160 titoli!) si rimane colpiti da una sorta di frammentarietà: si tratta per la maggior parte di brevissimi saggi, al più di una ventina di pagine. Se ne potrebbe ricavare l’impressione di essere di fronte a un pensiero disorganico, incapace di produrre una sintesi.
Si tratta certo di un limite, ma di un limite che derivava da ben altro che una presunta disorganicità. Proveniva invece da una volontà di scavare sempre più a fondo, da un desiderio di rigore che lo metteva costantemente in guardia dalle sintesi troppo ampie, dalle grandi costruzioni concettuali non sufficientemente fondate.
Storia come filologia: si potrebbe forse caratterizzare così l’approccio di Maccagni alla storia della scienza. L’interesse per gli aspetti paleografici e filologici Carlo lo condivideva con la sua Giovanna, ma veniva da molto più lontano. Uno degli scritti che più mi ha influenzato agli inizi del mio percorso fu un suo lavoro del 1966: “Filologia e storiografia della scienza: il ricupero delle fonti scientifiche classiche all’origine della scienza moderna”. Qui Maccagni metteva in luce la necessità – l’urgenza – di ricuperare seriamente il patrimonio scientifico del Quattro e Cinquecento per affrontare una valutazione della scienza galileiana e della cosiddetta rivoluzione scientifica. E un esempio luminoso di questo suo approccio furono i suoi lavori su Giovan Battista Benedetti, in particolare la monografia Le speculazioni giovanili “de motu” di Giovanni Battista Benedetti: un testo magistrale sia per i risultati che comportava per la valutazione dell’opera di questo matematico, sia come esempio di rigore metodologico – per questi aspetti vale la pena di studiarlo ancora oggi.
Carlo individuava con precisione le fonti del lavoro di Benedetti: quale Euclide, quale Apollonio, quale Archimede? Nella sua collaborazione al Progetto Maurolico prima e all’Edizione Nazionale poi, decine e decine di volte interveniva ricordando l’importanza di questo aspetto; e l’ho visto adottare questo stesso approccio rigoroso nel suo lavoro sul Trattato d’abaco.
La sua partecipazione all’Edizione nazionale degli Scritti di Piero gli aveva permesso di approfondire un’altra delle sue intuizioni: l’importanza dell’edizione critica dei disegni e dei diagrammi geometrici. Carlo aveva sviluppato questa sua riflessione anche in connessione con gli studi di Giovanna su Esiodo. Già nel 1970 avevano pubblicato insieme un lavoro sull’iconografia degli attrezzi agricoli nella tradizione esiodea. Maccagni insisteva molto sulla necessità di fondare una vera e propria ecdotica del disegno scientifico e di quello matematico in particolare. Così l’edizione del Libellus de quinque corporibus regularibus, del Trattato d’abaco e del De prospectiva pingendi di Piero sono tutti corredati da un tomo di edizione critica dei disegni pierfrancescani. È questo un campo ancora molto aperto e le scelte adottate in quell’edizione possono essere criticabili. Ma sta di fatto che a Carlo va il grande merito di aver posto la questione e aver aperto la strada: i suoi interventi su questa problematica nel contesto del Progetto Maurolico sono stati uno dei semi da cui sono poi germogliate iniziative quali le ricerche di Ken Saito e altri sui diagrammi matematici nella tradizione degli Elementi di Euclide.
Le vicende legate alla conclusione dell’edizione pierfrancescana occuparono molto Carlo negli anni 2008-2017. In quello stesso periodo anch’io ero stato portato (su suo suggerimento!) a occuparmi del cosiddetto Archimede di Piero, ovvero la copia, conservata nel ms. 106 della Biblioteca Riccardiana di Firenze, della traduzione del corpus archimedeo eseguita da Iacopo da San Cassiano, esemplata in larga parte da Piero stesso. La mano di Piero nel Ricc. 106 era stata identificata da James Banker, che successivamente si era poi sbrigliato in una serie di ipotesi più o meno fondate sulla sua datazione; la faceva risalire agli anni Settanta del Quattrocento, arrivando persino a sostenere che Piero avesse organizzato un suo vero e proprio scriptorium a Sansepolcro.
Carlo era molto scettico su queste ipotesi di Banker e ne discutevamo spesso. Nel 2017 eravamo stati invitati da Matteo Martelli a un convegno su Pacioli e Carlo mi propose di tagliare la testa al toro sulla questione: «Perché non studiamo da vicino il codice di Piero e quello di Francesco dal Borgo?» Francesco, architetto e notaio apostolico, era un parente stretto di Piero, che si era fatto allestire fra il 1458 e la sua morte (1468) un lussuosissimo codice miniato della traduzione di Iacopo (l’Urb. Lat. 261 della Vaticana). Che i due manoscritti fossero strettamente imparentati era stato ampiamente dimostrato e la pista era promettente per arrivare a una datazione. Carlo si immerse completamente in questo studio: le riproduzioni dei due codici, dell’autografo di Iacopo, del Trattato d’abaco debordavano dal suo tavolino da lavoro sulle sedie intorno e fino sul pavimento, e lui andava confrontando i modi di scrittura di Piero, le varie mani presenti nel codice di Francesco, le differenze nell’esecuzione delle figure, la mano di Piero Trattato.
Arrivammo ben presto alla conclusione che Piero non poteva in nessun modo aver copiato il suo codice se non durante il suo soggiorno romano del 1458-59. Ma cosa non era venuto fuori in quei giorni di inizio estate! La possibilità di datare le varie mani di Piero sulla base delle varie forme della sua ‘e’; le relazioni fra l’Archimede e l’Abaco; come si studiava nelle scuole d’abaco; come si confezionavano i manoscritti, lo studio delle filigrane ... Presentammo le nostre conclusioni a Firenze, in una caldissima giornata di giugno.
Fu questa la penultima occasione che ebbi di lavorare con Carlo e di mettere a frutto le sue conoscenze e la sua disponibilità. Nell’ottobre di quell’anno andammo insieme, con un viaggio piuttosto avventuroso, a Sansepolcro, per la presentazione della pubblicazione del De prospectiva pingendi di Piero. Il viaggio fu molto faticoso per Carlo che era già provato da una lieve insufficienza cardiaca. Poche settimane dopo, alla fine di novembre la situazione peggiorò e, alla fine del 2017, l’età e problemi di salute lo costrinsero a rinchiudersi in una casa di riposo a Tortona – lontano da amici e colleghi, ma almeno sostenuto dalla sua famiglia.
Carlo, pur dal suo ‘esilio’ tortonese, non rinunciò però a portare a termine il lavoro su Piero e Francesco dal Borgo. Insieme con Paolo d’Alessandro, riprendemmo in mano il lavoro che avevamo iniziato due anni prima e pubblicammo un contributo a tre nomi nel 2019, al quale Maccagni contribuì fino all’ultima correzione di bozze.
Sarebbe poi venuta la pandemia che avrebbe inghiottito Carlo, sequestrandolo nella clausura di una stanza di una RSA. Comunicare con lui diventò sempre più difficile e la nostalgia per quegli incontri, per quelle passeggiate, per quei pomeriggi in cui fra un sigaro toscano e un caffè mi raccontava dei suoi studi e della sua vita, si andò stemperando con l’amarezza della lontananza.
Ma non la gratitudine di aver avuto il privilegio di godere del suo insegnamento e di aver potuto condividere la sua ultima avventura intellettuale.
Ricordo di un maestro
di Argante Ciocci
Ho avuto la fortuna e il privilegio di conoscere Carlo Maccagni durante gli anni del mio dottorato di ricerca in Storia della Scienza, trascorsi a Bari fra il 1999 e il 2003. Il mio progetto di ricerca riguardava Luca Pacioli e il contesto storico e culturale nel quale si collocavano le sue opere matematiche. Fin dal colloquio orale del concorso di dottorato ebbi la vivida e nitida impressione di entrare in sintonia con la mente di quell’uomo che, mentre giocherellava col sigaro toscano, apprezzava con gli sguardi e le parole la mia proposta di ricerca. Ai miei occhi Carlo Maccagni appariva come uno dei padri fondatori della storia della scienza in Italia e pertanto fui onorato di averlo come tutor. Durante gli anni del dottorato di ricerca istaurammo un rapporto tra maestro e discepolo, in cui si alternavano fasi di corrispondenza a distanza e settimane di incontri baresi, che si tenevano con cadenza mensile: il prof. Maccagni leggeva sistematicamente e con puntigliosa attenzione i capitoli della mia tesi che gli inviavo periodicamente a Genova e durante la settimana barese, fra un sigaro toscano e un caffè, mi guidava nell’apprendistato del mestiere di storico della scienza.
Non erano soltanto le annotazioni ai miei testi a fornirmi le indicazioni utili per collocare le opere di Luca Pacioli nella storia della cultura, delle scienze, della matematica dotta e abachistica, dell’arte, delle tecniche e della società del Rinascimento. Erano soprattutto i colloqui informali tra maestro e discepolo lo strumento privilegiato usato da Maccagni per trasmettermi la sua passione per la ricerca e i suoi insegnamenti sull’uso dei ferri del mestiere dello storico della scienza.
Di quei colloqui, ai quali spesso partecipavano gli altri allievi di dottorato di Carlo, tra i quali mi piace menzionare Alessandra Sorci e Roberta Tassora, conservo ricordi che coinvolgono la sfera affettiva ma penso che quegli incontri abbiano lasciato anche tracce evidenti sul mio modo di esercitare il mestiere di storico della scienza. Il professor Maccagni spesso ci ripeteva che nel nostro mestiere non dobbiamo ambire a creare opere d’arte; semmai dobbiamo puntare a produrre lavori di buona fattura artigianale. E nella bottega artigiana di Carlo Maccagni, lo storico della scienza deve in primo luogo padroneggiare l’uso della materia prima, e cioè lo studio delle fonti primarie.
Del mio lavoro di ricerca apprezzava soprattutto la mia ostinata e a volte estenuante analisi di tutte le distinzioni, i capitoli e gli articoli della Summa. A questa preliminare analisi delle fonti erano connessi una serie di strumenti che bisognava saper usare, tra i quali la paleografia, la codicologia e la filologia. L’argomento della mia tesi non richiedeva particolari competenze codicologiche e filologiche ma ricordo con piacere l’emozione e gli sforzi per impadronirmi della scrittura mercantesca per leggere il Codice Palatino 577 della Biblioteca Nazionale di Firenze in cui era contenuta una gran parte della Geometria pubblicata nella Summa di Pacioli.
Una volta, durante una delle settimane baresi del dottorato, venne a farci lezione Giovanna Derenzini, la moglie di Carlo. In un certo senso erano complementari anche nel lavoro, oltre che nella vita. Quella lezione di codicologia fu per me un monito e uno sprone: il monito era quello di non disegnare cornici storiografiche, prefabbricate con più o meno espliciti paradigmi aprioristici, in cui inquadrare i documenti prima di averli letti e analizzati; lo sprone fu quello di acquisire, per quanto possibile, i rudimenti di quelle discipline che insegnano a leggere e studiare i manoscritti.
Alla fase di analisi di tutte le opere di Pacioli e dell’ampia letteratura secondaria che era stata prodotta sulla matematica e sulla civiltà del Rinascimento, doveva seguire una sintesi del lavoro svolto. Era arrivato il momento di mettere mano all’opera di scrittura, di plasmare la materia in modo da renderla quanto più possibile simile ad un dignitoso prodotto di una bottega artigianale. Parlammo spesso con Carlo Maccagni di come strutturare la tesi di dottorato. Alla fine, tutto il lavoro fu organizzato in modo da ricomporre le poliedriche facce di Pacioli, che la precedente storiografia aveva studiato in modo separato, intorno a due idee centrali che pervadono tutte le sue opere: la teoria euclidea delle proporzioni come linguaggio universale delle arti delle scienze e il rapporto fra matematica applicata e matematica teorica.
Questa seconda idea è nata chiaramente dalla frequentazione della bottega di Maccagni, che nei suoi studi sul Rinascimento distingueva due tradizioni culturali, per molti versi differenti sia nella concezione stessa delle scienze matematiche, sia nel loro uso applicativo. La prima è costituita dal sapere dei dotti, espresso nella lingua latina e coltivato o nelle Università o nelle corti e nei circoli umanistici del Rinascimento; la seconda è rappresentata dalla cultura pratica del cosiddetto «strato culturale intermedio» tra i dotti e gli analfabeti, costituito da artigiani, mercanti, pittori, architetti, maestri d’abaco, algebristi, ingegneri, idraulici, cartografi, meccanici, maestri d’artiglieria, insomma, in una parola dai tecnici, che adoperarono la lingua volgare e produssero, usando la scrittura mercantesca, una copiosa trattatistica di matematica pratica. Dall’analisi delle opere di Pacioli mi appariva evidente come gli scritti del matematico di Sansepolcro costituissero un ponte fra queste due culture e di come la categoria storiografica di «strato culturale intermedio», che Maccagni aveva ideato, fosse utile per comprendere la storia della scienza e delle tecniche del Rinascimento.
Il legame fra un maestro e un discepolo tende a sopravvivere alle contingenze degli eventi biografici. Sebbene, dopo il dottorato, le occasioni per frequentare Carlo siano state limitate a brevi incontri durante i Convegni e a lunghe telefonate periodiche, il legame affettivo è rimasto vivo fino alla sua morte. Degli incontri con Carlo, mi piace ricordare una cena a tre, svoltasi a Pisa nel maggio del 2017. Stavo studiando il codice Urb. Lat. 1329 che contiene il De aspectuum diversitate, cioè l’Ottica di Euclide usata da Piero della Francesca nel De prospectiva pingendi. In vista dell’edizione critica di questo codice, Pier Daniele Napolitani mi aveva caldamente invitato a passare due giorni con lui per imparare il MauroTeX, un linguaggio di mark-up sviluppato nell’ambito del «Progetto Maurolico» in vista dell’Edizione Nazionale dell’opera matematica di Francesco Maurolico. Dopo un pomeriggio di full immersion nel MauroTeX, Pier Daniele ed io passammo a casa di Carlo per andare a cena al ristorante. Maccagni aveva già letto le bozze del mio lavoro (del resto continuava a farmi da tutor a distanza di anni) e in quella cena, che univa commensali di tre diverse generazioni, ci ritrovammo a discutere dell’importanza della filologia per la storia della scienza. Conservo ancora vivido nella memoria il retrogusto di quella cena, che sapeva di vino e filologia, di sigaro toscano e storia della scienza. Ma oltre al ricordo, quello che resta di Carlo Maccagni è una preziosa eredità, costituita non soltanto dalla ricchissima produzione di pubblicazioni inerenti alla storia della scienza e della tecnica fra Trecento e Seicento, ma anche da quello che ha insegnato ai tanti allievi che hanno avuto modo di frequentare la sua bottega per apprendere il mestiere dello storico della scienza.